Quando La Tata arrivò sulla tv italiana era il 1995 e l’effetto fu un pizzico straniante. Perché mai gli sceneggiatori di un’ambiziosa sitcom americana avrebbero dovuto chiamare una bambinaia newyorkese Francesca Cacace e collocarne le origini proprio a Frosinone? Il trucco si scoprì tempo dopo, impattando sull’orgoglio un po’ provinciale del pubblico italiano: in realtà Francesca Cacace si chiamava Fran Fine e veniva da una famiglia ebraica del Queens. Il nome e la provenienza ciociari erano il più semplice frutto di una serie di cambiamenti per avvicinare la sitcom alla cultura degli spettatori italiani. Questa pratica si chiama glocalizzazione e a vent’anni di distanza è diventata centrale nella strategia di espansione di Netflix.
Per poter ampliarsi più rapidamente a livello globale, l’azienda streaming americana ha capito di dover adattare i propri contenuti ai gusti locali di quasi ogni singolo Paese. Solo, lo ha fatto in maniera ben più fluida e complessa del semplice (e maldestro) ricorrere al doppiaggio. La strategia di Netflix ha a che fare con i numeri, il marketing e la produzione di serie tv in tante lingue diverse. E se già in altri ambiti la gestione del rapporto tra globale e locale ha avuto una grande influenza sulla nostra percezione del mondo (lo abbiamo visto con l’ecologia, i notiziari, le canzoni e pure le riviste di moda), Netflix la sta portando a punto molto più alto. Tanto che qualcuno si è chiesto se, tra qualche anno, il nostro mappamondo mentale sarà fatto in parte dalle immagini delle sue serie tv.
La strategia di Netflix, in tre punti
Nel momento in cui scriviamo Netflix è il primo servizio streaming al mondo, e ci vorrà ancora qualche anno affinché venga superato (da Disney Plus, si dice). La sua piattaforma conta oltre 208 milioni di abbonati sparsi in 190 Paesi, di cui circa il 65% si colloca fuori dal Nord America. L’azienda non ha però raggiunto una simile estensione in un colpo solo. La sua strategia si è sviluppata lentamente, calibrando con attenzione la qualità dei propri contenuti e le caratteristiche degli spettatori locali nei diversi Paesi.
La rivista «Harvard Business Review» ha diviso l’espansione globale di Netflix in tre fasi che mostrano bene come sia entrata in graduale confidenza con il mercato televisivo mondiale. Nella prima fase, iniziata nel 2010, Netflix decise di esportare la sua piattaforma in Paesi considerabili vicini agli Stati Uniti per geografia o “distanza psichica”. Non è un caso, insomma, che il primissimo paese a poter usufruire di Netflix sia stato il limitrofo Canada. All’epoca sul suo catalogo c’erano solo produzioni non originali in lingua inglese, e perciò comprensibili agli spettatori canadesi. Non solo: il pubblico locale era già abituato a fruire contenuti simili a quelli statunitensi e anche le logiche di mercato non cambiavano poi molto.
Investendo nell’analisi dei dati di fruizione, Netflix riuscì a offrire contenuti sempre più cuciti su misura degli spettatori dei singoli Paesi. Questo gli permise di puntare a territori sempre più distanti – e qui ci avviamo alla terza fase – e adattarcisi con incredibile velocità. Nel 2016, entrando nei mercati Turco e Polacco, la piattaforma impiegò soli 6 mesi per aggiungere interfaccia, sottotitoli e doppiaggio nella lingua locale. In questo modo anche i potenziali utenti più esitanti – quelli cioè abituati a vedere serie tv nella propria lingua sui canali televisivi gratuiti – si sarebbero convinti ad abbonarsi.
La nuova glocalizzazione di Netflix
Nella strategia di glocalizzazione adottata da Netflix, ogni passo ha seguito due necessità: farsi percepire vicina alla cultura dei diversi spettatori e non sembrare una minaccia per le aziende televisive locali. Per farlo, l’azienda si è basata su uno studio ampio e approfondito di politica, istituzioni, leggi, infrastrutture, culture, concorrenza e pubblici di ogni Paese. Così approfondito da richiedere l’apertura di divisioni nazionali e sedi in tutto il mondo (la prossima, a tal proposito, aprirà nel centro di Roma.)
Con Netflix la glocalizzazione televisiva è diventata un processo elastico e di continua sperimentazione. Un incessante riadattarsi ai cambiamenti del mercato televisivo e dei bisogni del pubblico, se necessario stravolgendo anche la propria natura. È il motivo per cui, dopo essersi accorta che i francesi preferiscono ancora la tv tradizionale, Netflix ha testato in Francia un canale lineare che trasmetteva i suoi film e le sue serie tv seguendo un classico palinsesto. Ed è il motivo per cui, contro ogni aspettativa, l’azienda collabora da tempo con i tre principali gruppi televisivi italiani – Rai, Mediaset e Sky.
Nei suoi quasi 6 anni in Italia, Netflix ha stretto accordi con Rai e Mediaset per co-produrre serie come Suburra e film come Il Divin Codino. Sul suo catalogo ha poi ospitato (e ospita) fiction come Fantaghirò, Nero a metà e Il processo. Inoltre c’è stato anche qualche esperimento sulla tv lineare. Nel 2019 Rai 2 trasmise uno speciale condotto da Simona Ventura per promuovere la terza stagione della serie Netflix La casa di carta; nello stesso anno Italia 1 creò una programmazione a tema anni Ottanta, in occasione dell’uscita dei nuovi episodi di Stranger Things. A ciò si aggiungono infine le pubblicità create ad hoc per eventi televisivi molto coinvolgenti per il pubblico italiano, come Sanremo o la finale di Coppa Italia.
I vantaggi di questa collaborazione sono per entrambe le parti. Da un lato Netflix si integra nel mercato locale, rimpolpa il suo catalogo e si fa conoscere dagli spettatori meno avvezzi allo streaming. Dall’altro Rai, Mediaset e Sky si assicurano guadagni, una maggiore circolazione dei loro contenuti e la possibilità di attrarre un pubblico più giovane.
Di Giorgio Moroder e Keith Forsey, NeverEnding Story.
Dirige l'orchestra il maestro Dustin Henderson.
Cantano Suzie-Poo e Dusty-Bun accompagnati dal coro dei nostri sogni.#Sanremo2021 pic.twitter.com/sdxPcLtRzi— Netflix Italia (@NetflixIT) March 2, 2021
Il McDonald’s televisivo
Se si guarda solo al contesto televisivo, quanto fatto finora dall’azienda streaming sembra parecchio innovativo. Ma ampliando la visuale ad altri mercati e tempi, la strategia di Netflix non è del tutto una novità, e non solo in termini di glocalizzazione. Capita assai spesso, ad esempio, che per spiegarla si faccia riferimento al piano di espansione seguito da alcune famose catene di fast food, come McDonald’s.
Pensiamoci bene. L’idea centrale di Netflix – ossia far uscire in una volta sola tutti gli episodi di serie anche molto importanti – si basa sullo stesso concetto di binge, di “abbuffata” che ha reso popolari i fast food. Su Netflix, come da McDonald’s, non sempre i prodotti sono di eccellente qualità, ma assicurano nell’immediato un gratificante senso di sazietà senza spendere troppo. Il che risolve un problema comune a molti spettatori nel mondo: la frustrazione di attendere l’episodio successivo per giorni, prima di sapere come le cose andranno a finire. Questo non basta per garantirsi un’espansione globale, però. Così il servizio streaming si è messo alla ricerca di un modo per convincere davvero il pubblico e i mercati locali.
Le serie tv di Netflix sono un po’ come i panini di McDonald’s: la formula di base rimane pressoché sempre la stessa, ma subisce qualche piccola modifica a seconda del Paese in cui ci si trova (dalle fette di Grana Padano in Italia a quelle di kiwi in Nuova Zelanda). L’esempio più evidente è quello delle tante serie per adolescenti che Netflix ha prodotto di recente. La spagnola Élite, l’italiana Baby e la turca Love 101 sembrano copie reciproche, ma a diversificarle sono gli elementi della cultura da cui provengono.
L’idea di glocalizzazione di Netflix però sta andando molto oltre. Perché il suo obiettivo non consiste solo nel creare serie tv adatte a ogni singolo Paese, ma anche nel farle diventare successi mondiali.
Ma come fanno le serie locali a diventare globali?
Ted Sarandos, co-amministratore delegato di Netflix, ha spiegato che «Le grandi storie trascendono i confini». Tuttavia la questione è un po’ più articolata. I contenuti che Netflix sceglie di produrre a livello locale devono avere al tempo stesso una forte attrattiva globale. E qui – per quanto la notizia possa sembrare assurda – entrano in gioco gli stereotipi.
La maggior parte degli stereotipi narrativi, in quanto tale, è riconoscibile e comprensibile a tutto il mondo. Il caso della serie Gomorra, per uscire un attimo dall’universo di Netflix, lo dimostra alla perfezione. Difficilmente ci sarebbe aspettati che una serie recitata in napoletano e basata su logiche in apparenza solo napoletane avrebbe potuto essere venduta in 170 Paesi del mondo. Ma in realtà, ha scritto «Repubblica», alla sua base c’è “una tragedia greca che ricalca stereotipi universali e li aggiorna in base ad accadimenti locali e quotidiani”. Lo stesso meccanismo spiega il successo internazionale di serie come L’amica geniale o Il commissario Montalbano.
Il mantra di Netflix del resto è “Think global, act local”. E il fatto che lo applichi ogni volta in maniera diversa crea una glocalizzazione fluida. È il caso di La casa di carta, la serie spagnola originale che ha avuto successo in tutto il mondo, ma in Corea del Sud sarà adattata con una versione locale. O ancora meglio è il caso dei thriller tratti dai libri di Harlan Coben. Lo scrittore americano ha firmato con Netflix un accordo – non esclusivo – per trasformare almeno 14 dei suoi romanzi in serie tv. Il fatto curioso è che ogni adattamento viene sviluppato da un Paese diverso e finora non ce n’è nemmeno uno statunitense. Il potenziale di queste serie è perfetto per Netflix. La narrativa di Coben ha una struttura esportabile in tutto il mondo, e le sue trasposizioni la rendono originale aggiungendo elementi di culture diverse.
Netflix cambierà la percezione del mondo?
La glocalizzazione fluida di cui abbiamo parlato finora è senza dubbio un grande vantaggio per il mercato televisivo, soprattutto a livello locale. Mai come adesso le industrie di intrattenimento dei Paesi non anglofoni (da quella italiana a quella coreana, senza dimenticare quella africana) hanno avuto possibilità e risorse per produrre i propri contenuti, raccontare le proprie storie e mostrare la propria realtà.
C’è un grosso effetto collaterale, però. Netflix ha raggiunto un’influenza tale da poter cambiare la percezione del mondo e delle diverse culture attraverso i suoi contenuti. Da quando esistono, siamo abituati a usare le immagini e le storie di film e serie tv per colmare le nostre lacune sul mondo. Ma indipendentemente da quanto siano accurate, di certo sono incomplete: il loro scopo è intrattenere, prima ancora di raccontare la realtà in modo veritiero.
Alcune nazioni stanno addirittura cercando di sfruttare questo aspetto. Per l’Arabia Saudita, ad esempio, i servizi streaming sono un potenziale strumento di propaganda. Oltre a fare pressioni per far ritirare alcuni contenuti inappropriati, il Paese starebbe puntando sulle serie tv per ripulire la propria immagine agli occhi del mondo occidentale, un po’ offuscatasi dopo l’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi.
Anche in questo caso, comunque, la soluzione potrebbe essere l’intervento degli algoritmi usati da Netflix – e dagli altri servizi streaming – per suggerire contenuti in base alle scelte degli utenti. “Possono prolungare l’esposizione iniziale e l’interesse per i contenuti stranieri,” ha scritto il sito Fast Company. “L’intelligenza artificiale creata per nutrirci sempre più con cose che ci piacciono potrebbe finire per diventare una sorprendente spinta al cambiamento, facendoci ripensare quello che credevamo di sapere”.