Posta per la prima volta da Leibniz, tale domanda, «perché l’essere piuttosto che il nulla?», è stata riformulata e attualizzata da Heidegger nello scorso secolo, il quale definendola Grundfrage, ossia domanda fondamentale, ne ha garantito una enorme diffusione nel pensiero contemporaneo.
Sulla scia di ciò che ha scritto il filosofo Luigi Pareyson nel suo saggio sulla domanda fondamentale, si può affermare che essa, al di là delle sue tematizzazioni esplicite in filosofia (che non verranno affrontate in questo articolo), riecheggia pressoché in tutta la storia del pensiero umano, soprattutto nella letteratura e nella poesia, fin dall’antichità. Non si tratta di un problema unicamente filosofico, perché si radica – prima di tutto – nella sfera umana. Perciò il significato autentico della domanda sembrerebbe rivelarsi soltanto nel recupero della sua dimensione esistenziale. Ciò segna una grande distanza dalla prima formulazione, quella leibniziana, posta all’interno di un preciso orizzonte metafisico e cosmologico.
Ma dunque cosa significa chiedersi «perché l’essere e non piuttosto il nulla»?
Ciò che qui è in gioco non è altro che il senso delle cose e il senso della vita: nell’alternativa tra essere e nulla, è in questione il senso del mondo. Infatti, secondo Pareyson, la domanda fondamentale può essere espressa con più urgenza e stringatezza, dunque in modo essenziale, anche soltanto con un «perché?», un perché però denso e pregno di significato.
Non è un caso che questo “perché” si sia imposto nella riflessione filosofica in tutta la sua radicalità soltanto nel secolo scorso. È qui che emerge il nesso fondamentale con il nichilismo, cioè l’idea che il mondo sia privo di senso (tant’è che Nietzsche scriveva in un suo frammento: «nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”»). Di fronte agli orrori delle due guerre mondiali, soprattutto di fronte all’Olocausto e alla spaventosa malvagità umana manifestatasi in esso, ci viene posta dinnanzi, in modo ineludibile, l’alternativa tra senso e non senso, tra essere e nulla. Non a caso Pareyson, parlando di Schelling, scrive che la Grundfrage è «una domanda “colma di disperazione”, che emerge dall’abisso dell’infelicità dell’uomo, anzi di tutti gli esseri». In altri termini, essa emerge dal male e dalla sofferenza.
Il libro di Giobbe
Questo “perché”, che può essere al tempo stesso richiesta di senso e grido di protesta contro il male, trova nella letteratura delle espressioni stupefacenti. Una tra le più significative si trova nell’Antico Testamento ed è rappresentata dal Libro di Giobbe, nel quale forse si può trovare una possibile “risposta” alla domanda fondamentale.
Giobbe, un uomo pio e giusto, viene colpito improvvisamente da una serie di terribili sciagure: perde i suoi figli, tutte le sue fortune, e si ritrova solo, con il corpo dilaniato da piaghe, e nient’altro per alleviare il suo dolore se non dei cocci con cui grattarsi. Egli non maledice Dio, che ha permesso che questo accadesse, bensì, nel colmo della disperazione, maledice il giorno della sua nascita, e afferma:
Si oscurino le stelle del suo crepuscolo,
speri la luce e non venga;
non veda schiudersi le palpebre dell’aurora,
poiché non mi ha chiuso il varco del grembo materno,
e non ha nascosto l’affanno agli occhi miei!
E perché non sono morto fin dal seno di mia madre
e non spirai appena uscito dal grembo?
Perché due ginocchia mi hanno accolto,
e perché due mammelle, per allattarmi?
Sì, ora giacerei tranquillo,
dormirei e avrei pace. (Gb 3, 9-14)
E ancora:
Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore,
a quelli che aspettano la morte e non viene,
che la cercano più di un tesoro,
che godono alla vista di un tumulo,
gioiscono se possono trovare una tomba…
a un uomo, la cui via è nascosta
e che Dio da ogni parte ha sbarrato?
Così, al posto del cibo entra il mio gemito,
e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
perché ciò che temo mi accade
e quel che mi spaventa mi raggiunge.
Non ho tranquillità, non ho requie,
non ho riposo e viene il tormento! (Gb 3, 20-27)
Giobbe dunque, travolto da un male insensato e ingiusto, si chiede «perché l’essere piuttosto che il nulla?», protesta contro la vita, e la sua sofferenza si fa cosmica. Si dispera inoltre perché è costretto a soffrire, a guardare la morte in faccia ma gli è negata la possibilità stessa della morte, la quale gli appare come l’unico rimedio per porre fine ai propri tormenti e avere finalmente pace. Nel prosieguo del testo, incomincia un dialogo “filosofico” tra Giobbe e i suoi amici sul tema della giustizia, ma i ragionamenti degli amici non toccano l’animo di Giobbe e i suoi dolori e i suoi “perché?” si moltiplicano.
La manifestazione di Dio
Egli si rifiuta di riconoscere la giustizia divina, finché non si verifica una teofania. Ciò che ci interessa, al di là del ripristino delle fortune di Giobbe che avviene nell’epilogo, è proprio questa teofania. Di fronte alla manifestazione di Dio, egli, anche se innocente, si ricrede e si pente. E il discorso che segue può essere letto come una risposta, quanto mai elusiva e misteriosa, alla domanda fondamentale. Infatti Dio, dopo aver chiesto a Giobbe «quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri?», enumera le meraviglie e gli orrori della creazione.
Giobbe rimpicciolisce e, dal discorso di Dio, il mondo e la natura appaiono ancor più insensati e insondabili. Da un lato ci sono la meraviglia e lo stupore per l’esistente in tutta la sua maestosità e bellezza, dall’altro ci sono l’angoscia e l’orrore di fronte agli aspetti più terribili del reale (si pensi alla morte e alla malattia, così come ai disastri naturali e alla crudeltà della natura). Inoltre, il riferimento alla creazione può essere letto come un rimando a quell’abisso, a quel nulla che precede il venire all’essere del mondo, sul quale insiste lo stesso Pareyson. Che la creazione sia preceduta dal nulla non fa che calare un’ombra, un velo opaco su di essa e persino sulla divinità stessa.
Il fatto che il mondo è, rimane qualcosa in ultima istanza di inspiegabile, un mistero. Facendo uso della categoria di gratuità, si potrebbe dire che il mondo “è perché è”, così come Angelo Silesio scriveva che:
La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce; non bada a sé stessa, né si cura di esser vista.
Una risposta alla domanda fondamentale?
Ciò non ci offre una risposta alla domanda fondamentale. Un’autentica risposta a tale questione non può essere univoca proprio perché esistenziale; è qualcosa che chiama in causa noi, in quanto singoli individui, di volta in volta a decidere.
Da questa riflessione possiamo tuttavia guadagnare la consapevolezza che il nulla e la negatività sono l’altra faccia dell’essere, lo sfondo oscuro sul quale si staglia la luce. E che interrogarsi sulla domanda fondamentale può aiutarci a trovare un’alternativa tra l’accettazione acritica del reale e la negazione totale del senso propria del nichilismo.
Fonti
A cura della Conferenza Episcopale Italiana, La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009
Luigi Pareyson, La «domanda fondamentale: «Perché l’essere piuttosto che il nulla?», in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995