Essere egocentrici nel corso della vita, a differenza di quanto si potrebbe pensare, è in realtà in ogni individuo un’attitudine intrinsecamente naturale e necessaria. C’è un momento dell’esistenza, collocabile nei primi anni di età, nel quale il bambino si trova di fatto, in modo inconsapevole, a confrontarsi con il lato più egocentrico del suo essere.
Accade che l’io in questione, scevro di qualsiasi sovrastruttura esterna, non percepisce né bisogno né interesse nei confronti dell’altro. L’altro è un di più di cui servirsi, e non un “qualcuno” a cui tendere. La prospettiva relazionale appare quindi unidirezionale, velata quasi di un sottile egoismo. Ma è proprio dentro questo luogo comune che si dischiude un punto di vista nuovo: l‘essere egocentrici non come atto da condannare a priori, ma come atteggiamento formativo, da valutare a posteriori.
Che cosa si intende con “essere egocentrici”
L’egocentrismo è sostanzialmente un atteggiamento di un soggetto che pone se stesso e la propria problematica al centro di ogni esperienza, trascurando la presenza e gli interessi degli altri. Una persona egocentrica non riesce a provare empatia per gli altri individui, la tendenza è quella di non essere in grado di mettersi nei panni dell’altro.
A differenza di quanto si potrebbe immaginare, in un periodo preciso della vita, tutti hanno fatto esperienza dell’egocentrismo, con pregi e difetti annessi. Si tratta del periodo che intercorre tra il momento della nascita e i primi anni di età. L’essere egocentrici in questo stadio di sviluppo è qualcosa di assolutamente tipico e naturale. Il bambino orienta tutto il suo sguardo verso se stesso. Il mondo e l’esterno sono come dei cerchi, che si assottigliano sempre di più verso un unico punto: l’ego proprio.
In questo periodo della vita, il bambino crede quindi che tutto gli sia dovuto e che esista solo la soddisfazione dei suoi bisogni. Particolarmente complesso diventa infatti far comprendere al soggetto in questione anche il semplice concetto di “attesa di qualcosa, che sia un bisogno o un oggetto“. La reazione naturale è appunto quella di estrema impazienza, collera, protesta, fino a quando il bisogno non è completamente soddisfatto.
Anche il linguaggio diventa egocentrico
Ma tutto ciò non si verifica solamente nel comportamento o nell’attitudine, bensì anche nel linguaggio. La comunicazione verbale infantile presenta difatti delle caratteristiche accentrate, sia a livello di terminologia che di sintassi. Secondo gli studi di Piaget (1896-1980), psicologo e pedagogista svizzero, tutti i bambini piccoli vivono una fase egocentrica della vita, sopratutto, ma non solo, nei primi anni di età. Piaget sosteneva infatti che tutti i bambini piccoli fossero egocentrici, in quanto incapaci di differenziare il proprio punto di vista da quello altrui. Il bambino, in questa fase, si trova a gestire le informazioni a disposizioni dotandole di un valore assoluto, universale e improrogabile. Tutto ciò che è soggettivo per un adulto diventa così oggettivo per il bambino.
Assodato tale comportamento è facile notare come anche l’atto comunicativo verbale sia impregnato di tratti egocentrici e accentrati. Se si nota la forma verbale comune utilizzata dal bambino è sempre quella del monologo, che si rivela essere abbastanza comprensibile dal punto di vista comunicativo, ma piuttosto inefficace per quanto riguarda il lato comunicativo. Il bambino è totalmente noncurante del fatto che gli altri lo possano o meno comprendere. Il suo è un interesse fittizio, o meglio un disinteresse reale nei confronti di ciò che può comprendere l’altro.
Quando avviene il superamento
Tutto ciò durante la fase infantile è assolutamente normale, un passaggio necessario. Solo con il tempo si è in grado di acquisire una adeguatezza nel linguaggio, mettendoci impegno e costanza. Si tratta di un percorso graduale, nel quale si passa da un “essere egocentrici“, nel quale c’è un io chiuso nella propria individualità, a un “essere collettivi“, in grado di stare con altri. Nella prima fase è spesso frequente il pronome personale soggetto “io” o all’interno di qualsiasi monologo, nella seconda invece anche l’utilizzo pronominale si modifica in un “noi” più ampio. Le parole acquistano forse anche più peso, contribuendo all’allargamento delle prospettive soggettive.
Dai sette ai dodici anni difatti avviene il cosiddetto superamento della fase egocentrica. Secondo lo psicologo svizzero il punto di partenza va corrisposto con la messa in atto di operazioni concrete. In questo momento di vita il bambino è in grado di compiere scelte comportamentali non totalmente individualistiche, bensì rivolte anche verso l’altro. Posizionarsi da un punto di vista non è più così utopico. Si cerca una relazione per via empatica, intendendola nel suo significato più profondo, come connessione e collegamento bidirezionale.
Freud e l’egocentrismo
Lo psicanalista, neurologo e filosofo svizzero parla infatti di ipertrofia, intesa come aumento eccessivo, dell’Es detto anche “id” o “esso”, ovvero della voce della natura dell’animo dell’uomo, in cui l’individuo tende al soddisfacimento immediato delle pulsioni e degli istinti, senza tener conto dei limiti imposti dall’ambiente circostante e dei bisogni altrui. Il soggetto crea così dei presupposti per l’adozione di atteggiamenti che lui chiama antisociali e piuttosto devianti. Negli adulti ciò capita maggiormente durante periodi di forte stress o di grande euforia. Non si tratta più di ingenuità o mancanza di sovrastrutture, bensì di comportamenti che creano un disagio prolungato a livello sociale.
L’essere egoisti va concepito quindi come condizione, da una parte necessaria e formativa, dall’altra esistenziale e traumatica, che porta a risultati ed effetti apparentemente simili, ma nel concreto diametralmente opposti. Se da una parte la noncuranza è ingenua e di passaggio, dall’altro è vera cecità verso chi o cosa sta davanti, dietro o di fianco al proprio “io”.