Poco meno di un decennio fa Lena Dunham decise di ristrutturare l’immagine di donna fin lì conosciuta alla tv. Le bastò prendere Sex & the City e sostituire Carrie Bradshaw con Hannah Horvath, un’altra scrittrice newyorkese – ancora aspirante, però – con qualche chilo e un disturbo ossessivo-compulsivo in più.
Poi, siccome non c’è donna complicata ed egoista che non vanti frequentazioni femminili altrettanto complicate ed egoiste, ne rimpiazzò il trio di amiche con corrispettivi parimente volubili, ma un po’ più giovani e spiantati. Per la serialità fu l’inizio di una nuova era. Il piccolo schermo si affollò di eroine tutt’altro che esemplari, ma fatte di una materia condivisa assai reale: indecise, esplicite, disoccupate, incapaci di tenersi uno straccio di relazione sentimentale, e dalle psicologie sempre più sofisticate. Se possibile, ispirate alle biografie delle loro stesse creatrici.
Quel decennio sembra ormai in via di esaurimento. Ma ciò che – tra le altre cose – i suoi personaggi hanno lasciato è uno spazio fertile dove anche le controparti maschili potessero iniziare a rielaborare la propria immagine televisiva.
Accanto alle varie Abbi e Ilana, Issa Dee, Rebecca Bunch, Nadia Vulvokov e Fleabag (soprattutto Fleabag) sono spuntati, uno dopo l’altro uomini invischiati nei loro stessi casini di vita. Uomini, cioè, piuttosto smarriti e alle volte egoriferiti, impegnati in un cammino verso l’età adulta composto di imbarazzi ricorrenti e blocchi multipli. Impegnati, si fa per dire. Perché la loro unica scelta è il farsi trascinare dagli eventi; che chissà che nel letto di turno o al tavolo di qualche pub non si trovi finalmente un’identità in cui star comodi.
Le somiglianze però non devono ingannare. Questo passaggio di testimone tra personaggi femminili e maschili non c’entra nulla con il gender-swap. (Ossia, quella paritaria bazzecola hollywoodiana per cui sembra che Ocean’s Eleven o Ghostbusters non possano esistere senza un rifacimento a generi invertiti.) Se lo scopo di entrambi è sdoganare gli stereotipi di genere, la grande differenza sta nel modo in cui ci si confrontano.
Le protagoniste femminili si sono lanciate nell’arte provocatoria dello sperimentare tutto ciò che alle donne non era ammesso fare in tv. Concedendosi lo sfizio di apparire detestabili, hanno preso a calci potenti gli standard narrativi che fino a quel momento le avevano volute molto carucce o arpie totali, ma tutte ben imbellettate, portatrici disinvolte di abiti scomodi, sognatrici di storie d’amore da manuale di psichiatria romantica. Le femministe rigorose (che però nella realtà non ci sarebbero andate molto d’accordo) hanno gioito di tale slancio d’emancipazione. Ma forse non saranno contente di sapere che gli uomini televisivi hanno imboccato un evolversi per certi versi più interessante.
I nuovi personaggi maschili gli stereotipi non li combattono: per loro sono ombre gigantesche che generano ansie e un senso profondo di inadeguatezza. Cosicché invece di lasciarseli alle spalle, muovendosi in avanti con ostentata spavalderia, si fermano per rimuginarci sopra e chiedersi come sia possibile che proprio loro, solo loro (quando son quasi tutti, in realtà), non riescano a incarnare l’ideale di uomo preconfezionato dalla società.
I pionieri, gli Hannah Horvath della categoria sono stati lo squillante Dev e lo squattrinato Earn, i rispettivi protagonisti di Master of None e Atlanta. Il comico di origine indiana Aziz Ansari e l’afro-americano dai tanti talenti Donald Glover hanno creato e interpretato loro storie. Un susseguirsi di situazioni tragicomiche nella ricerca di un angolo lavorativo, sentimentale, razziale in cui sentirsi davvero appagati e apprezzati.
Entrambi non hanno una molecola di materia da spartire (anche nell’estetica) con i tenebrosi dannati o i burberi cinici di molte altre serie tv. Entrambi hanno gettato le basi per la nascita di personaggi maschili disorientati dalle proprie confusioni e insicurezze. Tuttavia è di recente che la serialità ha prodotto eroi moderni che davvero si frantumano e restano bloccati tra il mondo venduto dagli stereotipi e quello in cui scoprono di riconoscersi, con la paura di non appartenere a nessuno dei due.
Solo nell’ultimo anno la tv ne ha conosciuti diversi. Il Prete Sexy di Fleabag, ad esempio. Un trentenne sempre affannato (interpretato da Andrew Scott) che è l’esatta versione maschile della protagonista creata da Phoebe Waller-Bridge. Solo che, mentre lei reagisce alla paura di relazioni stabili, passando bulimica da un partner all’altro, lui fa l’opposto rifuggendo nel celibato. E quando è il “Ti amo” di lei a innescare il cambiamento, lui sceglie la fede schivandolo con un doloroso “Passerà”.
Anche la crisi di Ramy passa per la religione. Il personaggio che presta il nome alla comedy scritta e interpretata da Ramy Youssef crede che per crescere debba diventare un buon musulmano. Il problema, però, è che il suo ideale di buon musulmano è quello integralista e irreale che ha sempre visto in tv. Persino il padre, per dire, per quanto osservante, lo zittisce a fine Ramadan per seguire la sua serie americana preferita. Così gli episodi traggono forza comica dal suo non riconoscersi appieno nella cultura occidentale né in quella islamica tra le quali oscilla di continuo.
Infine c’è Connell, che finora – con gran merito di Paul Mescal, che lo completa con una miriade di fragilità espressive – è forse il più complesso dei nuovi personaggi maschili visti in tv. Normal People lo accompagna nel suo percorso di crescita dal liceo all’università condiviso con la solitaria Marianne. Metà della serie co-creata da Sally Rooney (e tratta dal suo stesso romanzo) si svolge nella sua mente: si passa per ipocrisie, attacchi di panico, depressione e una costante sindrome dell’impostore.
Connell crede di non meritare l’onestà, i successi, le amicizie, l’amore che gli vengono giustamente riconosciuti. Convinto di essere sbagliato, cerca di nascondere la parte di sé che non corrisponde all’ideale di mascolinità inseguito dai suoi coetanei. Il che lo conduce dritto allo studio di una terapeuta e a un crollo emotivo che fino a qualche tempo fa una serie tv non avrebbe mai osato approfondire.
Come già successo con le eroine femminili, si tende spesso a parlare di questi personaggi come voci della crisi dei millennial. Farne però una questione generazionale significa tagliare fuori personaggi più giovani e dall’autenticità altrettanto inedita. Come i ragazzi di Skam Italia o The End of the F***ing World, abituati a misurare la propria normalità secondo le categorie sociali consolidate tra le quali sono cresciuti.
Scrivere questi personaggi secondo Sally Rooney ha una valenza ben più ampia. Significa esplorare “il divario tra le aspettative di genere e la realtà in cui le persone vivono”. Magari per far scoprire che quelle maschili possono essere più ingombranti e invalidanti di quanto sia sempre stato raccontato.