Non si pecca certo di pregiudizio a pensare che una serie tv ambientata in uno strip club sia miele per il voyeurismo. Soprattutto se nel titolo è contenuta una “P” che sta per “Pussy” e le inquadrature stringono sugli abbondanti centimetri di pelle lasciati scoperti da micro-costumi. P-Valley, però, ha tutta un’altra intenzione, e a capirlo non ci vuole molto. Il suo è un incessante scansare la morbosità con colpi d’anca ben assestati, per aprire un varco tra le complessità e le fatiche del mestiere.
Si dice che P-Valley sia una delle cose migliori che quest’anno si siano viste in tv. La drammaturga americana Katori Hall l’ha riadattata dalla sua pièce teatrale Pussy Valley, scritta nel 2015 dopo aver trascorso parecchi anni ad ascoltare le storie di spogliarelliste per tutto il paese. Il materiale raccolto contiene una tale “varietà di personaggi e trame da poter andare avanti per anni”, ha detto al «Los Angeles Times». Eppure, finché il canale via cavo Starz non si è interessato al progetto, Hall ha faticato non poco per riuscire a portarlo in tv. Prima, ha dovuto aspettare che un nuovo filone di film e serie tv iniziasse a sdoganare i tabù sull’argomento, benché per l’industria audiovisiva sia sempre stato piuttosto redditizio.
C’è stato un tempo, a Hollywood, in cui i professionisti del sesso corredavano le sceneggiature per dare una misura della dissolutezza degli antieroi. Se ne stavano lì, a muoversi languidamente sullo sfondo o riempire qualche scena di passaggio, per essere ogni tanto promossi a protagonisti di pietre miliari del Razzie Award (Showgirls o Striptease, per dirne giusto due). Quel tempo non si è ancora esaurito, naturalmente. Ma negli ultimi anni si sono viste sempre più storie capaci di esplorare il contesto con una profondità autentica e connessa alle questioni attuali di genere, razza, soldi e potere. Magic Mike, The Girlfriend Experience, The Deuce, The Hustlers sono tutti ottimi esempi. Tuttavia conservano ancora qualche residuo di un mercato del sesso lascivo e voyeuristico; un mondo che i personaggi devono abbandonare per emanciparsi o che al contrario è orgogliosamente (e irrealmente) emancipato.
P-Valley invece no. P-Valley mantiene uno straordinario equilibrio tra tutte le componenti. Il Pynk, il locale purpureo al centro della serie, situato in una squallida cittadina nel paludoso Delta del Mississippi, si colloca sulla linea sottile che divide lo sfruttamento dalla liberazione.
A gestirlo con vigoroso pragmatismo e umanità è Zio Clifford (Nicco Annan), che è gender fluid e abbina battute taglienti con la stessa cura con cui si sceglie gli outfit. Ad accompagnare gli spettatori è invece la neoarrivata Autumn (Elarica Johnson) che fugge da un passato misterioso e viene affidata alla mentore Mercedes (Brandee Evans), la star del locale in procinto di ritirarsi per aprire una scuola di danza. Oltre a loro, gli episodi seguono Miss Mississippi (Shannon Thornton), una giovane madre invischiata in una relazione tossica, e Gidget (Skyler Joy), l’unica ragazza bianca del gruppo, per la quale la lap dance è una tradizione di famiglia.
In P-Valley il sottobosco degli strip club è un ambiente patriarcale che scheggia la dignità femminile; ma al tempo stesso è una fonte di guadagno che ciascuna protagonista sfrutta a modo proprio per costruirsi un futuro. È cosa contradditoria, certo. E Katori Hall calca e ricalca i contrasti volutamente, per affermare il femminismo labile ma reale che molte serie tv del dopo #MeToo hanno raccontato.
Le ragazze di P-Valley sono prima di tutto di lavoratrici. Si affannano, si allenano e padroneggiano il mestiere, le mance, i costumi, il trucco, le musiche e i clienti. Sono loro a farsi largo tra i tavoli per scegliere a chi concedere il proprio tempo. Sono loro a prendersi il centro della scena esibendosi in lap dance tra gli incitamenti enfatici di chi sta sotto a guardarle, uomini e donne.
Non ovunque infatti gli strip club sono tabù. Nel sud degli Stati Uniti sono una cultura dove si festeggia un po’ di tutto, dai compleanni ai baby shower. Katori Hall – che è nata a Memphis, in Tennessee, e perciò ci è cresciuta – la mostra qui creando un rapporto inscindibile e vibrante con le note trap, lo slang regionale che tronca parole e le fonde come fosse una musica, gli spazi desolati, umidi e scrostati dell’immaginaria Chucalissa, dove gli affari corrotti di politica e religione alimentano le trame secondarie. A fare la differenza sono però soltanto delle ragazze del Pyke, che da oggetti diventano soggetti. Con merito innegabile – per quanto il femminismo spiccio sia detestabile – dei dettagli che solo una squadra di sole registe avrebbe potuto cogliere.
Sul finire del primo episodio di P-Valley, Mercedes fa il suo ingresso in sala a mento ben alto, si ferma, con una sola occhiata intima al dj di cambiare traccia, e poi si riavvia a passi sinuosi verso il palco. Sincrona ai battiti potenti della musica, ondeggia, si dimena, si schianta al suolo, prima di afferrare il palo e iniziare a salire. Più si allontana da terra, più la musica si abbassa e le urla del pubblico si fanno impercettibili. Per un attimo si sente il rumore delle cosce che strisciano sul palo, poi solo il respiro frenetico mentre lassù, da sola, scuote la testa tenendo i tacchi sul soffitto. Quando finalmente, sempre a testa ingiù, si lascia cadere veloce verso il palco, la musica si rialza con la stessa rapidità fino al boato di accoglienza del pubblico.
Mercedes è coperta solo da qualche filo di vinile rosso e lunghi stivali abbinati. L’occhio però è stregato dal gesto acrobatico, dalla forza esplosiva, dai muscoli scolpiti che riflettono le luci violacee. E ci si accorge che stavolta non c’è morbosità. Solo ammirazione.