“Continueremo a fare quello che stiamo facendo“. Queste le parole del primo ministro israeliano Netanyahu, che inoltre assicura: “Hamas la pagherà”. Per quanto lo riguarda, Hamas usa parole non solo analoghe, ma proprio identiche, con la promessa che Israele pagherà “un caro prezzo”… Ma chi la sta facendo pagare a chi, allora? E per che cosa?
La situazione adesso
Dopo giorni di botta e risposta con missili e bombardamenti aerei, giovedì sera l’esercito di Israele è passato a mobilitare anche l’artiglieria terrestre. Ancora nessuna truppa israeliana sul suolo della Striscia di Gaza, ma la prospettiva di un’invasione (quindi di una guerra in piena regola) potrebbe concretizzarsi da un momento all’altro.
Peraltro, proprio giovedì sera un tweet dell’IDF (Israel Defense Forces) ha annunciato che l’attacco via terra alla Striscia fosse effettivamente partito; due ore dopo, però, il portavoce Jonathan Conricus ha puntualizzato: “Attualmente non ci sono truppe di terra all’interno della Striscia di Gaza”. Insomma, è questo il ruolo dei social network nei conflitti del Terzo Millennio: unico mezzo di aggiornamento in tempo reale, il profilo Twitter di una forza armata ha potere totale sul racconto di ciò che sta succedendo – laddove, persino ai militari materialmente coinvolti, gli sviluppi tendono a risultare incomprensibili.
IDF air and ground troops are currently attacking in the Gaza Strip.
— Israel Defense Forces (@IDF) May 13, 2021
E così, in quell’intervallo di due ore intercorso tra il tweet e la smentita, Hamas si dev’essere sentito sollecitato a rintanarsi nella sua rete di tunnel sotterranei. Non sarà un caso che, nella notte tra venerdì e sabato, la pioggia di bombe israeliane si sia concentrata su questi stessi tunnel: è presumibile che lo Stato Maggiore israeliano abbia diffuso di proposito la fake news, così da convogliare il nemico in un unico luogo.
Sia chiaro, è pericolosamente comodo schematizzare le dinamiche correnti con l’individuazione di qualcuno che aggredisce e di qualcuno che reagisce. In realtà, tanto Hamas quanto l’IDF stanno facendo passare le proprie azioni come una “risposta” a una colpa dell’altro: Netanyahu, si è visto, parla di “far pagare” ad Hamas il prezzo del suo terrore; ma già a fondamento di questo terrore ci sarebbe il pretesto di un sopruso commesso da Israele.
Vendette contro vendette, dunque, in cui ciascuna delle due parti parrebbe sbraitare: “hanno cominciato loro!”
Uno sguardo a ritroso sull’escalation
Il primo vero attacco da parte di Israele risale a lunedì 10 maggio, con bombardamenti su Gaza City destinati a proseguire per tutta la settimana.
L’attacco era stato “giustificato” dall’IDF come controffensiva a un lancio di razzi da parte di Hamas, avvenuto poco prima, sempre lunedì, e diretto a Gerusalemme. Altre migliaia di razzi si sarebbero poi aggiunte nei giorni successivi, con bersagli sparsi su tutto il suolo israeliano.
Ma che cosa aveva determinato, in primis, l’azione di Hamas? La domanda non è banale, perché era dal 2014 che il gruppo palestinese non attaccava Israele. Ebbene, a suscitare la sua indignazione era stato il duro intervento della polizia israeliana di Gerusalemme contro un gruppo di palestinesi, dopo che questi ultimi avevano occupato a migliaia la cosiddetta “Spianata delle Moschee”. Questa, a dispetto del suo soprannome, costituisce uno dei siti più importanti non solo per l’Islam, ma anche per Ebraismo e Cristianesimo: una sua occupazione da parte degli islamici palestinesi non poteva allora che scatenare la repressione delle forze dell’ordine ebraiche, che servendosi di proiettili di gomma e granate stordenti hanno fatto almeno 300 feriti.
Ovviamente, però, la decisione di tutti questi palestinesi di barricarsi nella Spianata delle Moschee era stata a sua volta un gesto di protesta nei confronti di un’iniziativa degli israeliani, più precisamente di un gruppo di israeliani nazionalisti. Questi, infatti, per il fatidico lunedì 10 maggio avevano in programma una marcia attraverso Gerusalemme (che sarebbe passata anche per i quartieri musulmani) volta a commemorare la presa della città durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967.
Complicazioni di lunga data
I musulmani residenti a Gerusalemme sentivano l’iniziativa come un’inaccettabile provocazione, associandola al fatto che sempre per il 10 maggio fosse prevista la sentenza della Corte Suprema Israeliana in merito allo sfratto di tre famiglie palestinesi dalla parte orientale della città – ossia la parte palestinese di Gerusalemme.
Lo sfratto sarebbe stato legittimato in quanto reclamo di terreni appartenuti agli ebrei prima del 1948, anno in cui il neonato Stato di Israele, assediato da tutti gli Stati arabi confinanti, non solo riuscì a difendersi, ma ne uscì conquistatore dell’80% del territorio della Palestina.
Fu solo per decisione dell’ONU che alcune zone (tra cui, appunto, Gerusalemme Est) rimasero assegnate a famiglie di sfollati arabi. Ma quando Israele, con la Guerra dei Sei Giorni, riconquistò l’intera Gerusalemme, riuscì a varare una legge che consentisse agli ebrei di tornare a riappropriarsi della case della zona est.
Insomma, per comprendere ciò che sta accadendo nel 2021 si è già rivelato necessario risalire al 1948. Ma le radici della guerra del ’48 affondano ancor più in profondità, a cavallo tra Ottocento e Novecento, con l’inizio del progressivo insediarsi degli ebrei in un territorio interamente abitato da arabi. Queste migrazioni rispondevano al progetto degli ebrei di sfuggire all’ormai insostenibile antisemitismo globale e di riunirsi in unico luogo, volontà che ovviamente non potè che intensificarsi in seguito all’Olocausto.
L’ostinazione sionista a vivere proprio lì, in Palestina, anziché da qualsiasi altra parte, non si spiega se non ripercorrendo millenni di storia: l’occupazione turca risale al VII secolo, mentre fino ad allora il territorio era assoggettato all’Impero Romano; ma prima della conquista romana del I secolo a.C., ça va sans dire, la Palestina era davvero la “Terra di Israele”.
Bandiera contro bandiera
I fatti correnti non sono altro che i riverberi di dinamiche decennali, a loro volta germinate da millenni e millenni di imprescindibili sentimenti di appartenenza. Ed è proprio il sentimento di appartenenza a questa bandiera ma non a quell’altra che continua a soffiare sulle fiamme dell’odio: il vero fronte di questa nuova fase del conflitto non si incarna soltanto nelle traiettorie dei razzi, ma anche e soprattutto nelle ondate di scontri, violenze e linciaggi che stanno verificandosi tra civili arabi e civili ebrei delle maggiori città israeliane.
È ovvio che un individuo può essere israeliano e non approvare le decisioni dell’IDF, come è vero che moltissimi palestinesi non si riconoscono nell’operato di Hamas. Ma tra gli ingranaggi delle discordie nazionali queste complessità finiscono smussate e obliate, e così agli occhi di un islamico tutti gli israeliani diventano responsabili delle sofferenze di Gaza, e agli occhi di un ebreo tutti i palestinesi diventano pericolosi terroristi.
Non è per vuota spettacolarità che torna alla mente una celebre constatazione di Gandhi, ormai abusata ma tristemente calzante alla situazione:
Occhio per occhio, e il mondo diventa cieco.
CREDITI
Immagine di copertina gentilmente concessa dall’autore dell’articolo.