Recentemente la sezione di società ha proposto un’interessante e attualissima riflessione attorno al concetto di “glocalismo” applicato alle tematiche ambientali, sottolineando puntualmente la contraddizione che talvolta si manifesta nell’opinione pubblica – in primis quella giovanile – di conciliare la spontanea adesione a un movimento ecologico globale con l’attenzione, assai meno partecipata, alle problematiche ambientali locali e, per così dire, site specific.
Ne è emersa la stimolante constatazione di come, a ben vedere, nell’immaginario comune sussista sempre una propensione quasi automatica a aderire a una causa mondiale (com’è appunto il movimento ecologico) che viene stimolata da una narrazione internazionale, ma al contempo una scarsa partecipazione quando proprio quei princìpi affermati sul piano globale (ambientalismo, sostenibilità, ecologia ecc.) sono messi in pericolo nelle realtà locali, concrete, specifiche e dunque vicine al vissuto quotidiano.
Perché l’architettura? La dialettica obbligata tra globale e locale
Quando si affronta il principio di glocale o glocalismo applicandolo alle istanze artistiche contemporanee (dal primo Novecento a oggi), la riflessione sui rapporti tra flussi globali e i tentativi di riconfigurazione locale di questi (secondo la definizione di glocalismo proposta da Robertson e poi da Bauman) non si può fare a meno di prendere in considerazione l’evoluzione che l’architettura ha attraversato dagli inizi del Novecento sino a oggi, proprio alla luce di come questa evoluzione sia stata condizionata da una dialettica tra globale e locale.
Prima di entrare nel merito della questione, analizzando come la teoria e la prassi architettonica siano mutate tra il primo e il secondo Novecento, occorre anzitutto dipanare alcuni dubbi e rispondere a una questione preventiva: perché proprio l’architettura?
Nelle poetiche artistiche contemporanee è infatti inevitabile che tutti i campi del “fare artistico”, dunque anche l’arte figurativa (come la pittura o la scultura), sia siano fatti carico di quelle che sono le macro-tematiche che investono la società contemporanea, tra le quali anche quella relativa al concetto di glocale.
Tuttavia esiste un forte discrimine tra le arti prettamente figurative e l’architettura, che rende quest’ultima una pratica a se stante e intrinsecamente soggetta più di altre a essere condizionata dalla dialettica globale-locale. L’architettura, cioè, rispetto alle arti figurative, è per sua stessa natura vincolata e determinata dal rapporto tra estetica e funzionalità.
Un rapporto questo che si fonda a sua volta sul carattere contestuale dell’architettura, sul suo essere vincolata all’armonizzazione del contesto in cui si realizza. In altre parole, se un dipinto, una scultura, un’immagine, sono indipendenti dal territorio entro cui vengono praticate (in virtù del loro carattere mobile) e non rivestono alcun tipo di funzione pratica, ma si offrono ad una mera contemplazione estetica, un edificio, un’abitazione, un contesto monumentale, nascono sempre dal rapporto con il territorio locale, con il suo ambiente, i materiali, la geologia, la geografia, la storia, pur subendo gli effetti di stili e forme che possono provenire dall’esterno ed essere, per così dire, “internazionali”.
Da questo punto di vista l’architettura è sicuramente la pratica artistica che più di tutte resta costitutivamente vincolata (o favorita, a seconda delle prospettive) al rapporto tra flussi globali e contesti locali.
Il “dibattito architettonico” tra internazionale e locale nel primo Novecento
Come ha evidenziato Pippo Ciorra, architetto e docente, in un suo contributo per il volume Glocal. Sul presente a venire (a cura di Franciscu Sedda), il concetto di glocale è in realtà intrinseco alla nozione di architettura, nella misura in cui è costitutivo dell’architettura stessa operare in una costante sinergia tra le tecniche, i materiali e le procedure locali da un lato, e i flussi stilistici e formali globali dall’altro, che naturalmente si modificano nel corso delle epoche in riferimento all’avanzare di nuove idee, stimoli e stili.
Sotto questo profilo un contesto particolarmente fecondo per quanto concerne la dialettica tra locale e globale è sicuramente rappresentato dall’architettura del Novecento.
Più precisamente nel periodo compreso tra le due guerre, tra gli anni Venti e Trenta, si assiste in realtà a un vero e proprio conflitto, in termini architettonici, tra spinte internazionaliste e ripensamenti locali, maturati da un lato in seno al cosiddetto Movimento Moderno e dall’altro lato all’architettura “organica” del maestro Wright.
Il Movimento Moderno in Le Corbusier e Mies van der Rohe
Sulla scia di riflessioni relative alla necessità di un’architettura che, sacrificando la mera estetica, metta in primo piano la sua funzionalità (anche in senso sociale), negli anni Venti e Trenta del Novecento maturano tutta una serie di ricerche che convenzionalmente rientrano sotto l’espressione di Movimento Moderno o di Razionalismo. Due termini che fanno però riferimento a una molteplicità di tendenze affermatesi alla luce delle sperimentazioni interne alla “scuola” del Bauhaus (in particolare con Walter Gropius) e ad architetti come Le Corbusier e Ludwig Mies van der Rohe.
Particolarmente significative appaiono le esperienze, che qui ci limitiamo ad accennare appena, di Le Corbusier e Ludwig Mies van der Rohe. Entrambi infatti, non privi di una certa influenza dell’estetica Bauhaus, rivoluzionarono completamente l’architettura nel primo Novecento, promuovendo un nuovo modo di concepire lo spazio abitativo in relazione ai materiali d’uso, all’aspetto e alla funzionalità sociale.
Pionieri del Movimento Moderno, Le Corbusier e Mies van der Rohe si fanno portatori di un’idea di architettura strettamente connessa alla massima funzionalità degli spazi e soprattutto all’uso di materiali innovativi – per l’epoca – ma al contempo decontestualizzati rispetto alla dimensione locale, come ad esempio il cemento armato, il metallo e il vetro, tutti materiali applicabili in qualsiasi contesto. Tutti questi aspetti (funzionalità e uso di materiali “nuovi”), uniti anche a tecniche progettuali innovative, vengono riconfigurati dai due architetti “razionalistici” entro soluzioni stilistiche e formali che già possiedono un respiro internazionale.
Questo vale ad esempio per l’innovativo edifico progettato da Mies van der Rohe a Barcellona come padiglione tedesco per l’Esposizione Internazionale (EXPO) tenutasi nella città catalana nel 1929, ma anche per la Villa Tugendhat degli stessi anni. Entrambe sono caratterizzate da un’impostazione architettonica razionale, seppur dotata di una certa eleganza, che sfrutta materiali come il vetro e il cemento armato per organizzare lo spazio in senso molto rigoroso, privandolo di qualsiasi sinuosità (che invece era stata caratteristica dell’architettura Art Nouveau di inizio Novecento).
Analogie con questi due edifici di Mies van der Rohe sono rintracciabili anche nella Villa Savoye (1929-1931) di Le Corbusier, forse l’architetto che maggiormente si è fatto portatore, insieme a van der Rohe, delle nuove istanze razionalistiche (che già si ritrovano anche nel suo modulo-padiglione dell’Esprit Nouveau del 1925).
Queste del resto saranno portate all’estreme conseguenze, nell’immediato dopoguerra, con la celebre Unità di abitazione di Marsiglia (1947-1952), un complesso di micro-appartamenti compattati entro un’unica monumentale struttura a parallelepipedo, pensata per ospitare, come un grande edificio residenziale dopo le devastazioni post-belliche, una quantità notevole di alloggi, impostata sui tipici pilotis robusti e organizzata internamente, negli ambienti e negli spazi, sull’unità di “misura” modulor messa a punto da Le Corbusier stesso per realizzare edifici a misura d’uomo.
Lo stile “globale” del Movimento Moderno
Le istante razionaliste del Movimento Moderno furono poi assorbite anche negli Stati Uniti, dove il linguaggio razionalista trovò una sua consapevole teorizzazione nella mostra curata nel 1932 al MOMA di New York dagli architetti Philipp Johnson e Russell Hitchcock. I due definirono proprio il Movimento Moderno nei termini di uno stile internazionale, presentandolo in questo modo come l’affermazione di un movimento architettonico che, tanto nello stile quanto nei materiali, si faceva espressione di un’istanza progressista e moderna che avrebbe dovuto essere seguita universalmente e globalmente, favorita dai processi di industrializzazione globale.
Nelle posizioni espresse da Johnson e Hitchcock il “moderno” avrebbe dovuto fissare un canone globale, dettando anche le condizioni per tutte quelle eventuali riconfigurazioni locali, che il teorico e architetto Christian Norberg-Schulz definirebbe con la felice espressione di Genius Loci (“lo spirito del luogo”). Nell’idea internazionalista di Johnson e Russell, infatti, la possibilità che lo stile architettonico del Moderno potesse essere inglobato in contesti locali anche in forme variate era considerata come un’eventualità positiva e propulsiva per gli sviluppi dell’architettura, a patto però che non scadesse in operazioni edilizie vernacolari, ossia troppo imprigionate dalla tradizione costruttiva locale (in altri termini che si emancipasse dalle forme architettoniche del passato di quella località).
L’architettura organica di Frank Lloyd Wright: il valore del locale
Di tutt’altro avviso invece appare la proposta architettonica promossa da Frank Lloyd Wright. Parzialmente in antitesi alle soluzioni dell’architettura razionalista infatti, Wright propose l’idea di un’architettura organica, concepita cioè in stretta relazione armonica con l’ambiente e il territorio su cui si realizza, tenendo conto anzitutto dell’uso di materiali il meno possibile “industriali” (come il cemento, il ferro e il vetro, usati invece largamente dagli architetti razionalisti) e legati invece al contesto locale specifico, possibilmente “tradizionali” (come la pietra, il legno ecc.), ma al contempo impiegati per dare vita a edifici dalle forme tanto moderne quanto quelle promosse dagli architetti razionalisti.
La novità interessante della proposta di Wright infatti (che del resto anticipa di decenni, quantomeno in architettura, quell’attenzione “ecologia” ai contesti locali che si sarebbe imposta dagli anni Settanta e Ottanta) si rintraccia proprio in una dialettica tra moderno e tradizionale. Tra la modernità dello stile e la tradizionalità dei materiali che, se vogliamo, assume anche le forme di una dialettica globale-locale, ponendo l’accento su come, utilizzando una materia di diretta estrazione locale (e quindi intrinsecamente legata al sito su cui l’architettura sorge), sia comunque possibile evitare “forme vernacolari” (a emulazione del passato) e dar vita a edifici tanto moderni quanto quelli promossi Gropius, mies van der Rohe, o lo stesso Le Corbusier. Per Wright infatti l’architettura deve seguire le leggi naturali, uniformandosi ai tratti distintivi del sito in cui sorge.
Per Architettura Organica io intendo un’architettura che si sviluppi dall’interno all’esterno, in armonia con le condizioni del suo essere, distinta da un’architettura che venga applicata dall’esterno.
A seguire le orme tracciate da Wright con l’architettura organica furono in molti, come ad esempio l’architetto ungherese Imre Makovecz, ma soprattutto il grande architetto e designer finlandese Alvar Aalto, che nei suoi progetti tentò per primo di coniugare la funzionalità (anche sociale) propria dell’architettura razionalista con una sensibilità “organica” per i materiali impiegati, soprattutto nei lavori della maturità.
Il secondo Novecento e la lezione dell’architettura giapponese
La Seconda Guerra Mondiale costituì anche per l’architettura un evento di incommensurabile impatto che stimolò nuovi ripensamenti suo ruolo, le forme e gli stili dell’architettura, sempre più legata alle necessità urbanistiche.
Il conflitto mondiale infatti, sarà pure banale ricordarlo, comportò degli strascichi non indifferenti in termini di devastazione territoriale, che inevitabilmente costrinse ad avviare una faticosa ricostruzione anche sotto il profilo urbanistico e architettonico. Tuttavia, proprio come il fiore di loto germoglia facendosi largo tra l’acqua melmosa e stagnate stagliandosi con la sua raffinata bellezza, anche dalle macerie – letteralmente – del secondo dopoguerra nacquero esiti mirabili nella progettazione architettonica.
Il riferimento orientale – giapponese – del fiore di loto non è casuale e permette di orientarci verso il Sol Levante per constatare come alcuni degli esiti più originali e straordinari dell’architettura del secondo Novecento si riscontrino proprio in Giappone. Con la fine della Seconda guerra mondiale infatti il Giappone – forse più di tutti gli altri Paesi, vista anche la tragedia degli ordigni nucleari – dovette confrontarsi con un’immensa opera di ricostruzione edilizia e urbana. In questo contesto le menti più brillanti dell’architettura giapponese recepirono le tendenze stilistiche provenienti anche dall’Occidente, ma reinterpretandole e riconfigurandole in modo originale e attualizzato con la propria memoria storica locale.
In particolare nella prassi architettonica si assiste ad una rilettura dei “dettami” del Movimento Moderno alla luce delle antiche tradizioni locali dal punto di vista edilizio e abitativo, in una sorta di contro-movimento glocale che coniuga le istanze internazionali con i processi locali.
Sotto questo profilo, uno dei primi interpreti di questa tendenza fu Kenzo Tange, che progettò i due stadi olimpici di Tokyo (1961-1964) coniugando l’uso di murature in calcestruzzo armato con sinuose ed eleganti coperture “a tenda”, costituite da un complessa rete di cavi d’acciaio, che richiamano le coperture delle architetture tradizionali giapponesi.
Uno dei maggiori architetti giapponesi, ancora oggi in attività, è però Tadao Andō, il quale pone al centro della sua ricerca architettonica la ripresa di aspetti e valori tratti dai modi di vita e dalla raffinata cultura spirituale del suo Paese in strutture fortemente minimali e che si compongono di materiali a uso industriale (come acciaio e cemento a vista), lasciando però trasparire un senso di profonda spiritualità che permea lo spazio interno attraverso soluzioni tanto semplici quando stupefacenti.
Paradigmatica in questo senso è la cosiddetta Chiesa della Luce (1987-1989) situata nella prefettura di Osaka, che si compone di un semplicissimo parallelepipedo in cemento in cui la parete minore sud è leggermente aperta da due fenditure che formano una croce dalla forte funzione simbolico-religiosa, soprattutto nel rapporto con la luce. Il fatto che l’apertura a croce sia nella parete sud infatti – ossia quella più esposta ai raggi del sole – fa sì che essa venga investita dalla luce solare creando una suggestiva “croce di luce” la quale, riverberando nello spazio minimale del piccolo edificio, contribuisce ad accrescere il carattere mistico dello spazio sacro.
L’Italia del secondo Novecento tra istanze moderne e storia locale
Nel contesto architettonico italiano del secondo Novecento invece svetta la personalità del milanese Aldo Rossi, forse uno dei maggiori architetti italiani tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Nei suoi progetti infatti, Rossi reinterpreta la lezione del Moderno con sguardo critico e con un costantemente riferimento all’Antico. Quest’ultimo però viene ripreso senza mai sfociare nell’emulazione asettica, ma al contrario attraverso una rilettura alla luce della modernità.
Così accade nel monumentale progetto per l’ampliamento del cimitero di San Cataldo a Modena (prima metà degli anni Settanta), per il quale l’architetto imposta l’insieme delle strutture scegliendo volumi estremamente elementari e archetipici, che suggeriscono una semplicità metafisica, memore forse della lezione figurativa dechirichiana, che configura il complesso cimiteriale come se fosse letteralmente una “città dei morti”, con strutture che replicano le fattezze di semplicissime case.
Particolarmente interessante, spostandoci qualche anno più addietro rispetto a San Cataldo, è anche la celebre Torre Velasca di Milano, eretta tra il 1954 e il 1958 su progetto dell’allora Studio BBPR. Simbolo indiscusso della Milano post-bellica alle prese con la ricostruzione e con il boom economico, l’edificio rappresenta forse il primo vero grattacielo del capoluogo lombardo. La sua particolarità però, aldilà delle etichette che le sono state attribuite di “architettura brutale” (per il mastodontico impatto visivo), consiste nell’essere maturata sulla scia di una riflessione che coniuga istanze moderne internazionali con citazioni – non troppo velate – alla tradizione storica locale dei torrioni del ‘400 lombardo.
Uno sguardo sul contemporaneo
Gettando uno sguardo sui nostri giorni, il già menzionato Pippo Ciorra, nel suo contributo, ritiene che in riferimento alle istanze glocali applicate all’architettura, la contemporaneità sta assistendo a quella che lui definisce una “schizofrenia architettonica controllata” in cui “ogni costruzione può appartenere e reagire ai due sistemi, quello locale e quello globale, e […] deve ovviamente prevedere, e accettare, i rischi di un conflitto tra le due istanze.”
FONTI
P. Ciorra, L’utopia glocale, in Glocal. Sul presente a venire, a cura di Franciscu Sedda, Luca Sossella Editore, 2004
C. Pescio (a cura di), Dossier Arte Volume 3. Dal Neoclassicismo all’Arte Contemporanea, Giunti, 2017