Il mondo dell’arte contemporanea piange il pittore Luciano Ventrone, deceduto all’età di 78 anni nella notte compresa tra il 15 e il 16 aprile, mentre si trovava nella sua casa presso Collelongo (L’Aquila). Con Ventrone se ne va un artista letteralmente fuori dal tempo, e per questo rivoluzionario. Un’interprete che seppe riattualizzare l’autorità della tecnica pittorica proprio in un secolo come il ‘900, in cui la pittura sembrava esser giunta alla sua fine, attendendo soltanto di emettere il fatidico canto del cigno. Un secolo in cui un teorico come Clement Greenberg predicava l’astrattismo e la bidimensionalità come le coordinate entro cui la pittura avrebbe dovuto attenersi per “rispettare la planarità del supporto-tela”.
Il padre dell’Iperrealismo
La pittura di Ventrone – e dopo di lui quella di altri – ebbe l’audacia di recuperare la figurazione nell’epopea dell’informale e del concettualismo. Ma lo fece spingendosi ai limiti stessi delle rappresentabilità, riaffermando il diritto di porre nuovamente al centro della riflessione artistica la realtà nella sua concretezza atomica, molecolare. Tutto questo senza tuttavia rinunciare a slanci metafisici, che solo un genere pittorico come la natura morta – che egli invece definiva viva – sa esaltare.
E con questo Ventrone fu probabilmente il pioniere di quello che oggi è un orientamento artistico consolidato e praticato, ossia l’iperrealismo. Il suo atteggiamento nei confronti della rappresentazione della realtà è spesso definito nei termini di un realismo-astrattismo. Un binomio che, seppur apparentemente ossimorico, si riferisce in realtà alla tendenza del pittore di partire proprio dall’astrazione della forma delle cose per riprodurle poi iperrealisiticamente.
Alcuni cenni biografici
La passione e il fascino per il medium del disegno e della pittura sorsero in Luciano Ventrone quando era ancora bambino. Nato nel 1942 a Roma, lui stesso ha raccontato come durante gli anni dell’infanzia, che trascorse in Danimarca, all’età di cinque/sei anni si avvicinò per la prima volta al disegno. Cominciò così a maturare una predisposizione e una sensibilità peculiare verso la figurazione.
Non a caso, una volta tornato a Roma, frequentò il Liceo Artistico e poi la Facoltà di Architettura. Gli anni del Liceo furono particolarmente significativi per Ventrone. Il suo maestro di anatomia, infatti, fu tra i primi a notare la sua particolare attenzione per la precisione fotografica e analitica nel disegno e nella resa maniacale delle forme e dei corpi. Proprio per questo, Ventrone ha raccontato come il maestro mostrò alcuni dei suoi disegni a Gastone Lambertini, all’epoca direttore di anatomia umana all’università Cattolica dei Sacro Cuore di Roma.
Quest’ultimo, dopo aver visto i lavori del giovane, gli chiese di realizzare alcuni disegni di parti anatomiche poiché “allora la fotografia non era così chiara quanto ancora poteva esserlo il disegno“, disse Ventrone in un’intervista fattagli in occasione della mostra a Villa Torlonia “Luciano Ventrone – artista sui generis” (curata da Cesare Biasin).
La fascinazione cellulare della materia
Proprio il contatto con il mondo scientifico costituì un vero fattore d’ispirazione per il pittore. L’esperienza dell’osservazione di tessuti, organi e cellule al microscopio, durante i pomeriggi trascorsi tra i laboratori dell’università, ebbero infatti sul giovane l’effetto di una rivelazione. Scoprì così un diverso modo di rapportarsi con la realtà e di prendere coscienza della materia. E tutto nacque dall’affascinante consapevolezza che l’uomo, quindi, e più in generale la materia, se osservati mediante altre lenti, diverse da quelle dell’occhio umano, appaiano paradossalmente sempre meno riconoscibili. Man mano che li si scruta più nel profondo, la loro struttura fisica diviene dunque una massa informe e irriconoscibile di elementi astratti (i tessuti, le cellule…).
Da questa rivelazione sulla materia derivano le prime grandi opere di carattere astratto – di un astrattismo scientifico verrebbe da dire – che il pittore realizzò tra il 1964 e il 1968. Pensiamo ad esempio all’opera Cellule 4 (del 1964) oppure Sezione cervello (1968), concepite proprio dall’esperienza dell’osservazione microscopica.
Dipinti come fotografie
Questo fascino scientifico per la materia da parte di Ventrone, però, può spiegare anche la cifra artistica che ha costituito la sua poetica, consegnandolo alla critica. L’interesse per l’osservazione scientifica della realtà spiega forse quell’iperrealismo che è alla base dei lavori del pittore. Le sue opere sono realizzate con una perizia tecnica che ha avuto pochi eguali nel secondo ‘900 e con la quale Ventrone ha continuato, dopo le prime derive astrattiste, surrealiste e poi programmatiche, a nutrire la sua arte con un paziente processo di labor lime. Questo lo ha condotto alla realizzazione di dipinti in cui la realtà, sia essa un corpo, un paesaggio o una natura morta, è riprodotta sulla tela in modo tecnicamente perfetto. Al punto, quasi, che non si riesce a distinguere se l’immagine sia un dipinto o una fotografia.
Una resa fotografica dunque, di fronte alla quale si perde ogni tentativo di sottomissione dell’opera ad una qualsivoglia elucubrazione concettuale. Ancora una volta, quindi, occorre sottolineare un gesto rivoluzionario come quello di Ventrone. Nel secolo della “morte della pittura”, dell’astrattismo, del concettualismo, dell’informale, il pittore rivendica la figurazione pura e l’autorità della tecnica pittorica. Per lui diventa quella lente (quel microscopio) attraverso la quale analizzare la realtà. Senza tuttavia rinunciare – come lui stesso dichiara – a slanci metafisici.
Verrebbe quindi da dire che, per Luciano Ventrone, la pittura e il disegno si pongano come dei mezzi epistemologici analoghi a quelli di uno scienziato. Proprio come era per Leonardo il disegno, Ventrone si serve delle sue opere per rapportarsi al mondo e scoprirlo.
Il sodalizio con Federico Zeri e il soggetto della natura morta
A partire dal 1968, l’artista lasciò gli studi per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Gli anni ’70 e ’80 furono un periodo particolarmente decisivo per la carriera di Ventrone. Furono infatti gli anni in cui strinse il sodalizio con il grande storico e critico d’arte Federico Zeri. Per lui realizzò tre ritratti iperrealisti, e Zeri si configurò come un mecenate, tra i primi a scoprire il talento di Ventrone e a sostenerne la produzione. Di lui Federico Zeri, considerando la sua parabola artistica, disse:
La pittura di Luciano Ventrone è una continua scoperta ottica, un incessante recupero della realtà oggettiva, che riemerge dopo l’alluvione di forme astratte.
Fu peraltro Zeri a definirlo, senza slanci iperbolici, il Caravaggio del XX secolo – pittore prediletto da Ventrone – e fu sempre il critico a indirizzarlo verso la focalizzazione su un preciso soggetto pittorico. Quello tra i più tradizionali della storia dell’arte, ma che lo avrebbe definitivamente consacrato: la natura morta.
L’atto pittorico della fotografia
In parte espressione del suo sentire filosofico, la natura morta fu per Ventrone l’occasione per perfezionare ulteriormente la sua tecnica sopraffina, arrivando ad esiti pittorici che rasentano la fotografia. Anzi, la sua pittura è fotografia, se per fotografia intendiamo non lo strumento ma, etimologicamente, l’atto di catturare e registrare la luce. In questo senso è come se gli occhi del pittore operassero come un obiettivo fotografico. E la tela fosse la lastra fotosensibile su cui rimane impressa l’immagine, proprio lì sulla superficie bidimensionale, catturata nel momento di perfetta esposizione fotonica.
Eppure gli strumenti di cui si serviva Ventrone non catturavano la realtà con l’immediatezza della macchina fotografica. Al contrario, per raggiungere esiti come quelli delle sue opere serviva un lungo, paziente e rigoroso lavoro di perfezionamento delle forma, del colore e, attraverso questo, della luce.
Ventrone non si definiva un realista
Proprio queste caratteristiche sono valse la definizione di iperrealismo per l’arte di Ventrone, sebbene il pittore non si definisse un realista. Lui stesso infatti in un’intervista aveva affermato:
Io non mi sento un pittore realista. Pur usando degli elementi naturalistici, li inserisco in un contesto metafisico, per cui alla fine i quadri miei sono quadri astratti.
Ed ecco allora che la critica ha introdotto per i suoi lavori l’espressione ossimori di realismo-astrattismo.
Tuttavia, di fronte alle composizioni di Luciano Ventrone l’occhio non può che sentirsi beffato. E il cervello, che recepisce l’immagine trasmessa dall’occhio, dichiara la sua stupidità davanti all’inevitabile interrogativo: è un dipinto o è una fotografia? Questa è certamente la domanda immediata che sorge ogni qual volta ci si trova di fronte ad un dipinto del compianto pittore. E allora dove sta il trucco? Come fa un pittore a raggiungere risultati così tecnicamente perfetti e fotografici?
Quando, in un’intervista, gli vennero poste queste domande, Ventrone rispose:
Uno deve vedere le cose prima da un punto di vista astratto, cioè vedere la forma dimenticando quello che rappresenta, deve vederne il colore ecc. e una volta che ha stabilito questo la rappresentazione è poi un fatto di rapporti e […] velature di colore […]. Bisogna avere una grande conoscenza dei colori, usare i migliori che esistano al mondo e ci vuole tanta pazienza, dedizione. […] Perché la luce (anche nel dipinto ndr.) è determinata dal rapporto che c’è tra i colori e se uno li sbaglia si perde questo rapporto di colori che è ciò che dà anche la tridimensionalità del quadro, la sua forza, la sua energia, la sua anima.
Così il nostro omaggio è d’obbligo per un artista che ha coniugato tradizione e innovazione, in opere di memorabile eredità artistica e culturale.