“Ma ti pare che dicevo sul serio?”, “E fattela una risata!”, “Guarda che la satira esiste da millenni”. È formidabile la varietà di appendici di cui avvalersi, all’occorrenza, per scampare alle proprie responsabilità. Per quanto offensivo e discriminatorio possa dimostrarsi un commento, chi l’ha pronunciato non è mai in ritardo per redimerlo al rango di “battuta”. Che curiosa concezione dello “scherzo”! Al giorno d’oggi parrebbe essere diventato una sorta di licenza, la chiave d’accesso a una zona franca in cui tutto quel che si dice non ha conseguenze concrete.
Ma è davvero così che stanno le cose? È davvero sufficiente che si tratti “solo” di uno scherzo, perché un’affermazione si svuoti del suo impatto originario?
Lo scopo della satira: esprimere un punto di vista
La satira esiste da millenni, questo è un dato di fatto. Ciò che non tutti sanno, però, è che non è come sinonimo di “discorso derisorio” che essa prese forma. Le origini del genere satirico sono da rintracciarsi nella produzione di Ennio e soprattutto in quella Lucilio, ossia tra il III e il II secolo a.C. A caratterizzarlo è l’eterogeneità di stili e temi di cui si fa carico: si tratta di un tipo di letteratura aperto alla voce del poeta, ideale per comunicare il suo sguardo sui molteplici aspetti della realtà in cui vive. Sarà più che altro a partire da Orazio, un paio di secoli più tardi, che la rappresentazione comica di persone e situazioni si avvierà a diventare prerogativa del genere.
L’intento di suscitare risa, quindi, è posteriore e funzionale a quello di trasmettere la propria opinione: lo scherzo non è mai fine a se stesso, ma risponde a un’esigenza comunicativa di chi lo intraprende. È per questo che nessun insulto, seppur lanciato sotto forma di battuta, perde il suo valore di insulto: la natura di un’offesa divertente equivale alla natura di un’offesa qualsiasi. Anzi, non è da escludere che il ricorso all’arma del ridicolo amplifichi l’intensità di ciò che viene detto. “Terribile è la potenza del riso” osserva Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone di pensieri, e ognuno ha sperimentato almeno una volta quanto può scottare il suono di una sghignazzata.
Seneca: satirista e discriminatore
Anche il filosofo Seneca ne era perfettamente cosciente, quando nel 54 d.C., alla morte dell’imperatore Claudio, compose l’Apokolokýntosis, la “deificazione in zucca” del sovrano stesso. Quest’opera satirica inscena l’ingresso di Claudio nell’aldilà, dove l’imperatore si aspetta di essere assunto tra gli dei e viene invece gettato negli inferi, in mezzo a tutti gli altri defunti. La rappresentazione esasperata dell’infermo e balbuziente Claudio contrasta duramente con le sue pretese di essere deificato, suscitando inevitabilmente l’ilarità del lettore.
Quello che sta facendo Seneca, a conti fatti, è discriminare Claudio, fare leva sui suoi difetti fisici per metterne alla berlina l’inadeguatezza al potere; e non è che ricorra a postille del tipo: “guardate che sto solo scherzando”. Intento dell’autore è proprio demolire la figura del despota che nel 41 lo aveva condannato a un esilio novennale, e c’è la precisa consapevolezza (nonché l’augurio) che l’opera avrà ripercussioni sul modo in cui l’opinione pubblica ricorderà Claudio.
È significativo che Seneca attenda la morte dell’imperatore, il momento in cui non avrebbe più rischiato di subire rappresaglie, per prendersi gioco di lui: se lo scherzo garantisse il privilegio di sottrarsi alle responsabilità delle proprie parole, perché non diffondere una satira su Claudio mentre era ancora in vita?
Battute sull’Olocausto, battute sugli ebrei
Lungi dal non sortire effetti, lo scherzo è uno dei modi più incisivi per esprimere il proprio parere. Scegliere verso chi indirizzarlo significa decidere contro chi schierarsi, con tutte le implicazioni che questa scelta si porta dietro. È allora interessante rendersi conto di chi siano, al giorno d’oggi, gli oggetti preferiti della satira.
Per scoprirlo, facciamo un esperimento: digitiamo su internet “battute sull’Olocausto” ed esaminiamo i risultati. Se consideriamo l’Olocausto (seppur con una certa approssimazione) lo sterminio degli ebrei per mano dei nazisti, fare una battuta a riguardo potrebbe voler dire tanto farla sugli ebrei quanto farla sui nazisti: ridicolizzare o gli sterminati o gli sterminatori. Eppure si rivela una vera e propria sfida trovare una singola battuta ai danni dei nazisti.
Si leggono trovate agghiaccianti del calibro di “Come ci stanno 500 ebrei in un’auto? Nel posacenere!” oppure “Anna Frank: record mondiale di nascondino”; ma non una beffa sui baffetti del “Führer”, non una voce che metta alla berlina il pathos grottesco delle SS.
Il declino del “black humor” contemporaneo
Sia chiaro che non è il “black humor” in sé il problema. Per “umorismo nero” si intende quel tipo di comicità che tratta di situazioni gravi, dolorose, macabre; ma non c’è nessuna regola che imponga a un “black humorist” di accanirsi contro le vittime di queste situazioni.
Ovviamente quelle sull’Olocausto sono solo le più raccapriccianti tra le spiritosaggini che seguono questo trend: battute e meme del genere affollano i social (Instagram e Tik Tok in cima) con una densità che fa accapponare la pelle, e non ci sono limiti ai temi su cui mettono le mani. Che si tratti di violenza domestica o di omofobia, fame nel mondo o disabilità, questione migranti o abusi sessuali: a essere beffate risultano essere sempre le mogli picchiate e i gay uccisi, i bambini malnutriti e quelli mutilati, i barconi rovesciati e le ragazze stuprate.
Viene schernito chi di queste vicende è vittima, mentre non viene toccato chi ne è colpevole. Che cosa è successo, i carnefici sono diventati troppo terrificanti per riuscire a riderne? I funerali della satira sono già stati commemorati?
Il vero significato di “sdrammatizzare”
Lo scherzo è potere, ridicolizzare equivale ad attaccare. Seneca ridicolizzava il tiranno che lo aveva esiliato, si serviva del potere dello scherzo per minare il potere da cui era stato schiacciato; i sedicenti comici di oggi, al contrario, sembrano godere a ridicolizzare chi è già spoglio del potere, a opprimere chi è già schiacciato. Non è raro che, nel farlo, gli stessi mettano avanti le mani ed enuncino che “bisogna sdrammatizzare”.
Su questa esigenza siamo tutti d’accordo: la capacità di ridere di una circostanza spaventosa è probabilmente la forza più strabiliante dell’essere umano. Ma “sdrammatizzare” significa “rimuovere il dramma”; e a causare il dramma sono i carnefici, di certo non sono le vittime. Esiste un solo e unico modo di sdrammatizzare un evento critico: ridicolizzare il colpevole di tale evento.
In una celebre scena del suo capolavoro Il Grande Dittatore, Charlie Chaplin, nei panni di una parodia di Hitler, si mette a palleggiare con un mappamondo mentre sogna ad occhi aperti di diventare “dittatore del mondo“. Questo brillante sketch denuda la fame di potere del “Führer” per quello che è: una pretesa vuota, infantile e meramente individualistica, che non trova motivazioni al di fuori di se stessa. Trasfigurato in un bambinone che gioca, il tiranno diventa risibile, e quindi diventa vulnerabile. Lo spettatore ride del dittatore, e ridere di qualcuno che governa col terrore significa neutralizzarlo. Questo è sdrammatizzare, questo è emanciparsi dalla paura con cui una situazione tremenda ci tiene in pugno.
La strumentalizzazione dell’ironia
Nonostante tutto, però, continua a esistere un’ultima spiaggia, una scappatoia ideale per chi non vuole rinunciare allo spasso di prendersi gioco delle vittime: appellarsi all’ironia. Questa figura retorica, in effetti, consisterebbe nel dire il contrario di quello che si intende. Si tratta, ad esempio, di un meccanismo intrinseco della parodia, in cui l’ironia è portata talmente all’estremo che il comico finisce per impersonare modi e atteggiamenti di un individuo. Si pensi a Maurizio Crozza e alle sue popolari imitazioni di personaggi di spicco della scena politica italiana, con cui fa il verso ai loro discorsi e delle loro opinioni.
Allo stesso modo, chi pronuncia un’affermazione che, per un motivo o per l’altro, parrebbe simpatizzare per il nazismo, è sempre pronto ad affermare di star facendo dell’ironia; come se le sue intenzioni fossero fare il verso al punto di vista dei nazisti stessi. È il caso di Vittorio Feltri, fondatore del giornale Libero, che a inizio febbraio è stato ospite della trasmissione Stasera Italia. Quando la conduttrice Barbara Palombelli gli ha chiesto di pensare a qualche nome di rilievo che avrebbe voluto vedere al governo, Feltri ha subito dichiarato: «Hitler». Lo studio è sprofondato in un silenzio da brividi, e sono stati in molti, tra gli utenti del web, a biasimare l’osceno intervento. Ma è stato cospicuo anche il numero di chi ha preso le difese di Feltri, arrivando perfino ad ammirarne la “geniale ironia”. Se Crozza può farlo, d’altronde, perché lui no?
Ironia che funziona e ironia che non funziona
Ora, trovare un criterio oggettivo per discernere l’ironico dal letterale parrebbe impossibile. Eppure si può. Da sempre, infatti, a decretare l’efficacia di una commedia non è l’autore, ma il pubblico. Sono le risate a decidere se una barzelletta è divertente; è la reazione di chi ascolta a decidere se un commento ironico funziona in quanto tale. Ed è sufficiente una persona, un’unica persona che non colga l’ironia del commento per rendere il commento inadeguato e pericoloso.
L’ironia di Crozza è inequivocabile: tutti i suoi show, da Crozza Italia a Fratelli di Crozza, sono sempre stati dichiaratamente satirici, lo stesso Crozza è conosciuto in quanto satirista e i suoi numeri in quanto parodie. Tutto il contrario per quel che riguarda l’ambigua uscita di Feltri, in un contesto in cui ci si aspettavano discorsi perspicui e a prova di fraintendimenti. Si noti peraltro che lui per primo, nel correre ai ripari dopo il triste commento, non ha accennato ad alcun intento ironico: si è semplicemente limitato a borbottare un prevedibile «Non si può più dire niente».
Come è tediosamente consueto in casi del genere, anche in questa occasione non è mancato che chi ha osato indignarsi per il commento di Feltri sia stato additato di essere troppo ottuso per capire l’ironia delle grandi menti. Urge invece un repentino slittamento di paradigma: se c’è qualcuno che si indigna per una battuta, vuol dire che quella battuta è degna di biasimo. Finché c’è il rischio che anche una sola persona prenda alla lettera il contenuto dell’asserzione, finché c’è il rischio che quell’asserzione ironica trasmetta il messaggio che, proprio in quanto ironica, puntava a ribaltare, finché sussiste questo rischio, allora quell’ironia è di un tipo e uno solamente: il tipo di ironia che non funziona. E un commento oltraggioso, spogliato della sua presunta ironia, rimane semplicemente un commento oltraggioso.
Tutto ciò non significa che «non si può più dire niente», questo sia ben chiaro. Chiunque può cimentarsi nelle battute che più gli gustano, e nessuno dovrà permettersi di censurarlo. Soltanto una cosa deve essere limpida e cristallina: che dopo aver fatto una battuta razzista, sessista o omofoba non ci si azzardi a negare di essere razzisti, sessisti o omofobi.
G.B. Conte, Profilo storico della letteratura latina, Le Monnier, 2019