Può l’intelligenza artificiale sostituire l’attore in carne e ossa? Un enigma complesso da risolvere, anche nell’epoca attuale, quando il digitale sembra aver invaso le vite di tutti i giorni, incluso il settore della moda. Se la presenza dei robot nelle realtà aziendali è infatti ormai all’ordine del giorno, non è così facilmente intuibile il loro utilizzo all’interno di realtà culturali. Questi vengono ormai impiegati nei più svariati ambiti, dalla gestione del personale alla realizzazione pratica degli oggetti e il loro utilizzo sembra addirittura incrementare la creatività dei team. Essi sono addirittura utilizzati nel “dietro le quinte” di una produzione cinematografica. Tuttavia, immaginare la presenza di un essere totalmente disumano all’intero di uno spettacolo teatrale appare fantasmagorico e irrealizzabile. Il teatro costituisce da sempre infatti il tempio del corpo in movimento e la presenza fisica dell’attore risulta necessaria per scaturire una comunicazione con il pubblico basata sull’empatia.
L’esperimento di Mirowski e Mathewson: il robot “improvvisatore”
Eppure nel mondo diversi tentativi sono stati realizzati e le ricerche a riguardo proseguono in modo incessabile. Sembra forse quasi verosimile immaginare nel prossimo decennio un attore che duetta a fianco di un robot. Verosimile quanto straniante. Uno scenario simile appare attualmente totalmente utopico soprattutto in una cultura come quella italiana, affezionata ai corpi vivi e scenici dei comici dell’arte. Nonostante ciò, nel mondo l’esperimento di Piotr Mirowski e Kory Mathewson sembrerebbe procedere in direzione contraria. I due studiosi hanno infatti ideato un robot in grado di rispondere alle battute di un attore in carne e ossa. L’idea è infatti quella di creare dialoghi tra uomo e macchina, in modo che i due individui costituiscano una coppia comica a tutti gli effetti. L’obiettivo dell’esperimento, spiega Mirowski, era infatti quello di
[…] capire quanto sia semplice o impegnativa la collaborazione con una macchina nel ruolo di compagno di scena in esibizioni live.
Il robot “improvvisatore”
Il robot è un vero e proprio improvvisatore che risponde alle battute del suo compagno di scena. Grazie alla creazioni di reti neurali e di un sofisticato meccanismo di apprendimento del linguaggio, il robot riceve impulsi e genera risposte coerenti. L’esperimento ha però individuato un grosso limite riguardo il ritmo della conversazione. Il chatbot impiega infatti troppo tempo a elaborare una risposta alla battuta dell’attore. Ciò costituisce un evidente problema nel genere teatrale della commedia, in cui il ritmo costituisce la base dei dialoghi. Il tempismo perfetto innesca infatti spesso la risata, risultando fatale per la riuscita della scena. Inoltre, il robot è un soggetto privo di umanità e dunque non in grado di svolgere un’interpretazione sufficiente per innescare un contatto emotivo e cognitivo con il pubblico.
Per questo gli studiosi hanno deciso di presentare in scena due attori in carne ossa, uno dei quali guidato da un chatbot. Quest’ultimo ha il compito di elaborare le informazioni provenienti dalla sua spalla comica ed elaborare le risposte, ovviando il tema dell’interpretazione, così a opera dell’attore. Gli spettatori, sottoposti a un test, sono stati però in grado di individuare facilmente la provenienza umana o non umana delle battute. Per questo la perfetta sincronia tra uomo e macchina sul palcoscenico è apparsa fallimentare per gli stessi due studiosi. Essi ritengono infatti che siano necessarie parecchie forme di affinamento per rendere il dialogo tra i soggetti fluido. Dunque la partecipazione attiva del robot sulle scene teatrali non risulta imminente.
Il teatro giapponese e la ricerca il caso del Robot-Human Theatre Project
La presenza dei robot negli spettacoli teatrali è stata approfonditamente indagata all’interno di un progetto di ricerca sviluppato in Giappone: Robot-Human Theatre Project. Il progetto sperimentale consiste in una collaborazione tra Hirata Oriza, regista e drammaturgo, e Ishiguro Hiroshi, ingegnere robotico. L’esperimento ha portato alla realizzazione di cinque pièce teatrali in cui al centro della scena vi erano attori umani e robot. L’obiettivo è comprendere il limite espressivo di tali macchine in scena. L’idea infatti non è soltanto realizzare performance che mostrino lo stato evolutivo della ricerca scientifica, ma esplorare dal punto di vista antropologico e sociologico l’effetto prodotto dai robot sull’essere umano, sia in quanto spettatore, che attore.
I robot in scena interpretano differenti personaggi, con fattezze e gestualità specifiche. L’obiettivo del regista è infatti produrre un robot che riproducesse un essere umano, dunque in grado di recitare una parte teatrale anche dal punto di vista interpretativo. Ciò avviene grazie a differenti meccanismi di programmazione realizzati da Hiroshi. Da una parte infatti il robot viene pre-impostato per generare gesti e azioni confacenti a un attore. D’altro canto invece esso riproduce emozioni attraverso un meccanismo di controllo da remoto. A tal proposito, una delle questioni maggiormente discusse riguarda la produzione delle emozioni. Si può parlare infatti di emozioni spontanee o pre-programmate? È questa una delle domande che si pone lo stesso regista e d’altronde questo rappresenta anche il perno dell’intera riflessione riguardo il rapporto tra teatro e automazione.
“Sayonara”
Tra le performance, la più rilevante e maggiormente discussa è Sayonara, realizzata nel 2010. Al centro un’androide donna, Geminoid F, che dialoga con un’attrice in carne e ossa all’interno della sua abitazione.
I temi trattati nella performance sono piuttosto pesanti. In particolare al centro il grande tema della malattia e dell’abitudine alla sofferenza e, in secondo luogo, alla morte. Nella storia infatti si racconta di un’androide, comprata per far compagnia a una giovane donna malata terminale. Geminoid F. racconta poesie per smorzare lo scorrere del tempo e allietare gli ultimi giorni di vita della giovane donna. In fin dei conti la performance rappresenta un vero e proprio duetto a sfondo tragico. La pièce è stata riadattata nel 2012 dopo la tragedia di Fukushima. In quel caso infatti si è immaginato un differente finale alla performance. La donna robot, dopo la morte della sua compagna, ha continuato a recitare le poesie per le vittime del disastro.
L’androide è rivestita in silicone e abiti femminili. L’obiettivo del regista è infatti quello di cercare di nascondere la natura robotica del soggetto in scena e rendere impercettibile la differenza tra le due entità. Proprio questo atteggiamento ha però innescato controversie. In effetti, Geminoid F. è stata ritenuta più simile a una marionetta che a un oggetto dotato di intelligenza artificiale. In effetti essa viene “pilotata” dietro le quinte grazie all’utilizzo di un sofisticato sistema di sensori. Quest’ultimi permettono di prestare voce e movenze al robot in scena. Ciò rende dunque evidente quanto la presenza dell’essere umano sia necessaria per la realizzazione della performance, al punto da ridurre notevolmente il livello di impulsività del robot stesso.
“La Métamorphose”
Un’altra interessante performance dello stesso regista è La Métamorphose, spettacolo tratto dall’opera di Kafka. Hirata ambienta la storia in una paese francese e immagina un protagonista che, svegliandosi un mattino, subisce una metamorfosi, proprio come è rappresentato nel romanzo kafkiano. Il regista introduce però una differenza: rispetto a Kafka infatti, che immagina la trasformazione in un insetto, egli ipotizza la metamorfosi di un umano in un androide.
Hirata costruisce così un nucleo famigliare surreale: i due genitori, umani, accudiscono il figlio, ormai un robot. La contrapposizione tra le nature degli esseri dimostra l’opposizione tra due differenti mondi. Il primo è infatti costituito da carne e sentimenti, mentre il secondo dall’asettico contesto robotico. La vita del robot e il suo essere vigile ma emotivamente “bloccato”, vengono simbolicamente rappresentati dalla presenza di una pianta accanto al letto. Ciò suggerisce l’assenza del calore famigliare e dei sentimenti, contrapposti al calore umano dei personaggi.
Interessante è anche l’estetica del robot, progettata dall’ingegnere Hiroshi. L’androide appare infatti privo di vestiti e ciò fa notevolmente risaltare i circuiti. Insomma, contrariamente alla donna robot Geminoid F., l’intenzione creativa del regista non è certo quella di nascondere l’aspetto robotico della figura, né quella di “ingannare” il pubblico. Il personaggio è infatti rappresentato in tutta la sua “meccanicità”. Il suo viso appare invece bianco, simile a una maschera giapponese. Così il protagonista della piéce si pone al confine tra la robotica e il Teatro Noh. In effetti ignorare quest’ultima forma di teatro alquanto antica in Giappone appare improbabile. Eppure, l’unione tra la più antica delle tradizioni teatrali e il futurismo di una messa in scena che elimina l’attore in carne e ossa non sembra portare frutti.
Gli androidi e la meccanica delle emozioni
L’utilizzo dei robot all’interno delle scene teatrali introduce differenti problematiche sociali, oltre che artistiche. La natura meccanica dell’attore in scena tende a impedire la realizzazione di un contatto emotivo con il pubblico. Sembrerebbe dunque cadere l’ipotesi condivisa secondo cui in teatro si possa innescare una comunicazione emotiva tra attori e pubblico. Quest’ultima infatti si genera tradizionalmente durante uno spettacolo teatrale, nel momento in cui attori e spettatori condividono lo stesso spazio creativo. È la fisicità degli attori e la loro presenza in carne e ossa sul palco a generare nel pubblico un processo di consonanza emotiva. Ciò avviene grazie all’attivazione della “simulazione incorporata“, un processo neurale che coinvolge direttamente i neuroni specchio. Tali neuroni riproducono nella mente di chi osserva lo stesso circuito neurale attivo nella mente di chi produce a tutti gli effetti l’emozione.
Il meccanismo dei neuroni specchio rischia però di non attivarsi di fronte a un oggetto robotico, impedendo la realizzazione del contatto emotivo riproducibile solo all’interno di un teatro. Ciò appare enfatizzato nell’analisi della performance Le Métamorphose poiché il personaggio protagonista esplicita esteticamente il suo essere robot. Nel caso dell’androide donna Geminoid F. invece, l’immedesimazione si può forse innescare. Le sue sembianze infatti sono talmente simili a quelle di una donna in carne e ossa da non renderne distinguibile la differenza.
Infine, non bisogna dimenticare quanto l’atto teatrale consista prevalentemente in uno scambio di energia tra i corpi in scena. L’obiettivo di un attore è infatti in primo luogo trasmettere energia al pubblico, “colpire la sua pancia”, trasmettere calore. Per fare questo ha bisogno di un corpo in movimento e di uno spirito vitale. Tutti elementi inconciliabili con l’asetticità di un robot. Insomma l’inclusione dei robot negli spettacoli teatrali è verosimile in un futuro, ma di certo non imminente. Ora come ora l’idea è più quella un racconto fantascientifico, che di pura realtà.
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