Moda e tecnologia sembrano essere un binomio perfetto. Una combinazione che guarda al futuro e cerca di migliorare e risolvere quelli che sono i problemi più comuni per l’industria tessile, dalle tematiche ambientali ai cambiamenti introdotti nel settore dal Covid-19.
Moda e tecnologia
La tecnologia ha permesso alla moda di fare numerosi passi avanti, rendendola per esempio più consapevole delle sue logiche produttive, come accade con lo studio di materiali dedicati alla produzione sostenibile. Con la necessità di una vita sempre più digitale, l’innovazione ha invece sdoganato il concetto di moda da ogni suo confine, estendendo il suo dominio a spazi digitali che non le sono mai appartenuti per definizione. D’altronde la moda è sempre stata un fatto fisico, qualcosa di concreto da indossare, sentire e apprezzare nel mondo reale, più che all’interno di un videogioco.
L’innovazione è il motore del cambiamento, anche nel mondo nel fashion. Eppure in questa corsa inarrestabile al progresso tecnologico in ogni ambito, pare legittimo chiedersi quanto questo si concili con la natura fisica dell’abbigliamento. Fino a che punto la tecnologia è utilizzata per innovare la moda in senso positivo e consapevole? Quando invece è la moda a cadere a servizio della tecnologia e di un mondo quasi esclusivamente virtuale?
Tecnologia e fashion management
La tecnologia digitale ha permesso innanzitutto al settore della moda di essere più efficiente e “responsive” nei confronti delle esigenze dei consumatori. Esigenze che sempre più spesso combaciano con una maggiore attenzione per l’ambiente, la società e la qualità della produzione. L’industria della moda è infatti il secondo settore più inquinante al mondo dopo il trasporto aereo, con un enorme impatto nel rilascio di CO2 e di altre sostanze tossiche che spesso finiscono ad alterare l’equilibrio delle risorse idriche.
In questo contesto, con “digitalizzazione della moda” ci si riferisce a un uso della tecnologia volto a favorire un’organizzazione delle logiche produttive più efficiente, unito a un utilizzo più calcolato delle risorse. Centrale è il tema dei dati, dalla raccolta all’analisi per impostare collezioni che siano in un certo senso “assicurate” da un potenziale fallimento sul mercato.
Sono le cosiddette collezioni “data driven” in stile Zara, ovvero quei capi nati per lo più da una formula matematica piuttosto che dalla creatività di uno stilista. A guidare il progresso sono infatti gli algoritmi e i sistemi di Machine Learning, in grado di trasformare flussi di dati pressoché infiniti in informazioni filtrate e preziose, utilizzate poi come guida in fase progettuale dai creativi. Si tratta di una moda customer centric, che dalle preferenze dei consumatori realizza collezioni ad hoc.
L’intelligenza artificiale è un’ottima alleata nella strategia di profilazione del target, nella gestione della logistica, della produzione e dei magazzini, ma soprattutto nel design della customer experience sia online che in store. Il vantaggio principale? I brand generano un’offerta che corrisponde sempre di più alla domanda reale dei consumatori, e allo stesso tempo minimizzano gli sprechi che derivano dall’eccedenza produttiva.
La moda è un algoritmo?
Zara, colosso della moda fast fashion, è tra i principali leader in data management, tanto da avere quasi più analisti che fashion designer. Per sostenere il ritmo di mini-colezioni ogni 14 giorni ogni dettaglio dev’essere calcolato ad hoc, soprattutto per evitare che al problema della sostenibilità della moda veloce si aggiunga quello delle eccedenze invendute. Ad esempio gli store sono geo-localizzati e associati a un profilo utente che identifica le preferenze di stili, colori e perfino delle taglie, permettendo in questo modo di segmentare la produzione anche a seconda della popolazione che frequenta lo store.
Altro caso esemplare è quello Nike e del suo concept store a Melrose, in California, realizzato da zero a partire dai dati raccolti sui clienti abituali. Il risultato è un hub che riflette la comunità locale in tutte le sue sfumature, dagli articoli più acquistati alle abitudini sportive.
Questo profilo gestionale permette di realizzare una produzione più consapevole: nel lavoro, nelle risorse e nella soddisfazione del consumatore. Una soluzione che sembrerebbe accelerare quella che è la sostenibilità People, Profit, Planet, un business della moda che agisce nel rispetto di tutti.
Ma fino a che punto la creatività può essere ridotta ad una formula matematica? Non è tutto rose e fiori se si considera la questione della privacy, basta pensare al fatto che ogni singolo comportamento umano si traduce in un dato interpretabile. E nonostante la logica induca a pensare che queste informazioni provengano per la maggior parte dall’online, in realtà molti dati vengono dagli store fisici, dove il cliente è seguito passo passo per trarne gusti e preferenze.
I dati, come qualsiasi tecnologia, si dovrebbero considerare mantenendo un aspetto critico che riservi spazio anche alla creatività.
Senza l’intervento umano i dati sono solo un miraggio
Michael Jaïs di Launchmetrics
Moda e tecnologia indossabile
A partire dalle etichette “parlanti” RFID, una sorta di carta d’identità che registra il ciclo di vita del capo a cui è applicata, moda digitale è anche tecnologia integrata a livello di prodotto. Dalla sperimentazione dei designer più all’avanguardia sono sempre di più le proposte di “wearable technology”, quei capi che oltre all’estetica hanno una componente “smart”.
In questo senso le vie della moda sono infinite, e spaziano dai tessuti intelligenti all’integrazione di nanotecnologie per rispondere alle più diverse esigenze. Camici che proteggono dai raggi UV, giacche riscaldanti e in grado di ricaricare i propri device, fino alle più recenti soluzioni sviluppate in riposta alla pandemia di coronavirus. Tra questi ci sono capi realizzati con tessuti trattati per eliminare virus e batteri patogeni, come il cappotto antibatterico di Genny o la capsule “Diesel Upfreshing” di Diesel. Il design è sempre ricercato, la funzionalità è un plus.
Innovazione che poi è spesso a sostegno di cause lodevoli, come nel caso della “Sound shirt” dell’azienda londinese CuteCircuit, una maglia che permette ai non udenti di sentire la musica sul proprio corpo. Grazie a sensori integrati al tessuto, il suono viene catturato e trasformato in vibrazioni che vengono trasmesse sulla pelle “a ritmo di musica”.
Moda Phygital
La pandemia di Coronavirus è stato l’evento che forse ha più scombussolato il mondo della moda nel corso della sua storia, spingendola a rivedere il suo sistema quasi totalmente. Se la tecnologia prima era vista come un mero optional a scelta dei già innovativi, oggi rappresenta un po’ la luce in fondo al tunnel della rinascita.
In primis, ciò è stato visto durante le più recenti Fashion Week, dove presentazioni e video digitali di ogni tipo hanno salvato l’evento più importante per il mondo della moda. Anche in questo caso la parola chiave è stata “sperimentazione”, essenziale per tradurre i problemi in soluzioni capaci comunque di emozionare il pubblico della sfilata.
E il digitale non solo ha permesso alla moda di continuare con la sua spettacolarità, ma ne è diventato anche tema e filo conduttore. Oltre ai classici scenari da sogno, molti eventi dello scorso gennaio hanno aperto una riflessione sulla tecnologia e sul destino della moda, ambientando le collezioni in spazi futuristici. Come per Dolce&Gabbana: il loro contributo è stato un suggerimento su come gestire al meglio questo nuovo mondo in cui modelle, robot, artigianalità e tecnologia dovrebbero convivere, perché l’innovazione deve essere a servizio dell’umanità e non il contrario.
La digitalizzazione è ormai imprescindibile se si vuole continuare l’attività in un periodo di chiusure quasi totale, e paradossalmente è ciò che ricongiunge le persone con la natura più fisica della moda. Esplicita testimonianza è anche la crescita esponenziale degli e-commerce, delle vetrine virtuali sui social media e di qualsiasi soluzione possa connettere i brand con i propri clienti.
In questo senso la tecnologia ha reso la moda più democratica e alla portata di tutti. Fare shopping e vivere la moda online sta diventando la nuova normalità, che però dev’essere gestita con equilibrio e consapevolezza.
Moda virtuale
La moda riflette la società e il tempo in cui viviamo. E in un periodo in cui la vita sta prendendo una piega tutta digitale, anche la moda sta sperimentando soluzioni che vanno oltre l’immaginabile. Ma se le prove virtuali che permettono di provare i capi dallo smartphone grazie alla realtà aumentata sono ancora collegate alla realtà, le ultime tecnologie stanno esplorando territori puramente virtuali.
E cosi a fianco di una moda ragionata sullo stare in casa, si sta sviluppando uno stile tutto digitale, totalmente svincolata dalla natura fisica della moda.
Le “Electronic girls”, conosciute più comunemente come e-girls, sono il simbolo di una sottocultura giovanile che vive una vita fondamentalmente online tra social media e videogiochi, già dai tempi prima della pandemia. Nonostante si parli di una nicchia, con uno stile preciso che dal Goth si lega alla cultura cosplay, il principio che ne sta alla base sta diventando mainstream. Si tratta di abbigliamento, trucco e quant’altro realizzati esclusivamente per la vita virtuale mediata da uno schermo: non ci si veste più di abiti veri, ma di filtri ed effetti.
Alcuni marchi, tra cui Gucci e Sunnei, hanno già collaborato con il business dei videogame per organizzare presentazioni creative, facendo indossare ai personaggi i vestiti delle collezioni, e lasciando all’utente la possibilità di sperimentare con gli abbinamenti. Ma da questa soluzione originale i brand si sono spinti oltre, tanto che la tendenza vale quasi già miliardi.
“Digital couture”
In un tempo in cui si passa la maggior parte del tempo online e sono i videogiochi a colmare il vuoto della socialità, le persone sono più interessate a gestire la propria apparenza virtuale. E come naturale conseguenza, i brand cercano di soddisfare queste esigenze passando dai tessuti ai bit.
Alcuni sono già specializzati, come la “digital couture” dell’olandese The Fabbricant, mentre altri iniziano a sperimentare: Gucci ha appena lanciato le sue sneakers digitali al modico prezzo di 12$. Si chiamano Gucci Virtual 25 e sono la prima creazione di Alessandro Michele fatta di bit e vettori, sono personalizzabili e si possono acquistare sull’app ufficiale della maison.
Questo business ha già anche un nome, “Gamerbait”, i suoi prodotti, le cosiddette “skin”, e modelle virtuali che stanno già diventando delle vere celebrity con milioni di followers su Instagram. Tra queste ci sono la giapponese Imma gram e la spagnola Lil Miquela, che nonostante siano soltanto delle CGI, computer-generated imagery, vantano già una carriera di collaborazioni con i brand più noti del pianeta. Qualche nome? Dior, Prada e Calvin Klein, più una nomina come beauty editor da Dazed per Lil. Ma fino a che punto si può continuare a parlare di moda?
Moda e tecnologia, tra rischio e opportunità
Nonostante questo mondo possa vantare tutta una serie di vantaggi, tra cui un minor impatto ambientale e un mercato a oggi quasi libero dalla concorrenza, in questo contesto sembra che la moda stia cadendo a servizio della tecnologia, passando da soggetto a oggetto del discorso. E quindi non innovazione a sostegno della moda, ma moda per favorire tutto un altro tipo di business, tra l’altro è estraneo all’impegno e alle logiche di una filiera tessile.
In tanti si chiedono come sarà la moda quando questa situazione di incertezza finirà: probabilmente più democratica, inclusiva e sostenibile, e questo è un bene. Ma che rapporto si andrà a stabilire tra fisico e digitale? Si raggiungerà il cosiddetto equilibrio “Phygital”? Torneranno le ambitissime “front row” agli eventi più attesi dell’anno? Sarà tutto da vedere. Resta il fatto che la moda è anche quella che vive per strada, nella quotidianità a contatto con le persone, e nei tessuti che si possono sentire sulla propria pelle.
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