L’Ursus maritimus
L’orso polare o, appunto, “ursus maritimus” è il più grande carnivoro terrestre ad abitare il nostro pianeta.
Venne riconosciuta come una specie a parte solo nel 1774 da Jhon Philips, al quale dobbiamo anche il suo nome scientifico, (dal latino orso marittimo), per l’habitat naturale in cui vive. L’orso polare (o appunto orso marino) vive nell’Artide e il suo territorio si estende lungo il nord Europa, il nord America e l’Asia. A renderlo cosi particolare è sicuramente il suo pelo, non bianco come molti credono. Infatti, i peli di questo animale non hanno pigmenti bianchi, ma sono cavi, permettendo così alla luce del sole di raggiungere facilmente la pelle e riscaldarla. Questa caratteristica ha reso possibile la sopravvivenza di questa specie in uno degli ambienti più inospitali del pianeta.
Attualmente la popolazione è stimata sulle 20mila unità, ma, oramai da anni, assistiamo sempre di più a un calo del numero degli esemplari. In Canada, dove risiede circa il 60% della popolazione mondiale di questa specie, il numero di orsi è diminuito drasticamente in pochi anni.
Un habitat a rischio e i cambiamenti climatici
Attraverso un rapporto, le Nazioni Unite hanno dichiarato che i piani di azione dei governi attualmente in corso non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi stabiliti dall’accordo sul clima di Parigi. Viene sottolineato che i paesi non stanno facendo quanto servirebbe per combattere il cambiamento climatico e i dati confermano che l’Artide si sta riscaldando il doppio più velocemente di qualsiasi altra zona sul pianeta. Cosa comporta tutto questo?
Gli orsi polari vivono da sempre percorrendo lunghe distanze attraverso tutto il loro territorio, sia per cacciare che per riprodursi. Questi spostamenti sono sempre più pericolosi e difficili da fare. Il surriscaldamento della calotta artica sta riducendo sempre di più il suolo percorribile, limitando i movimenti fra enormi distese di ghiaccio marittimo, sempre più distanti fra loro, costringendo spesso gli animali a lunghe traversate a nuoto e rendendo l’habitat sempre meno adatto alle loro esigenze. In queste condizioni gli orsi hanno difficoltà a cacciare e a procurarsi il cibo e questo costringe gli animali a lunghi periodi di digiuno.
Ciò determina la difficoltà di accumulare riserve di grasso fondamentali per la sopravvivenza. Questa ricerca così affannosa di cibo, spinge gli orsi ad avvicinarsi pericolosamente a zone abitate, con il rischio di entrare in contatto con l’uomo. Tutto questo comporta una denutrizione elevata in molti esemplari, e spiega il tasso di riproduzione sempre più basso.
Un orso denutrito è di conseguenza meno sano, inoltre le femmine non sviluppano capacità sufficienti per nutrire i piccoli. Gli esperti, infatti, hanno scoperto che nella maggior parte dei casi i cuccioli, durante i primi mesi della loro vita, non sopravvivono alle rigide temperature del clima artico per la mancanza di cibo e perché le femmine, che si occupano di allattarli, non hanno sufficienti riserve di grasso immagazzinate nel loro corpo.
L’inquinamento e l’attività petrolifera
Gli esperti, attraverso alcuni studi, hanno riscontrato inoltre la presenza di sostanze tossiche nell’organismo degli orsi, che si accumulano attraverso la catena alimentare. Queste causano negli animali una bassa concentrazione di ormoni, anticorpi e vitamine, fondamentali per la vita. Il risultato della presenza di certe sostanze è la difficoltà di svolgere alcune funzioni fisiologiche di base come la riproduzione e la crescita. In alcune zone gli scienziati hanno individuato anche la presenza consistente di queste sostanze nel latte materno, riducendo ancora di più la capacità nutrizionale e rendendo più deboli i cuccioli.
Ad aggravare una situazione di per sé già difficile, è l’incessante attività petrolifera nell’artico. Proprio il presidente uscente degli Stati Uniti, Donald Trump, poco prima di abbandonare la Casa Bianca, ha svenduto a compagnie petrolifere un’importante area protetta in Alaska, che ospita diverse specie di animali a rischio, tra cui gli orsi polari. Gli incidenti che causano la perdita di grandi quantità di petrolio sono eventi abbastanza frequenti durante il lavoro per l’estrazione e il trasporto di questa materia prima.
In un ambiente come quello artico, dove le condizioni ambientali e climatiche non sono per nulla favorevoli, il rischio di procurare dei danni importanti all’ambiente è molto elevato. Un eventuale contatto con il petrolio potrebbe rivelarsi mortale per un orso polare, così come per ogni altro organismo.
Il petrolio ridurrebbe l’effetto isolante della pelliccia dell’animale, costringendolo a utilizzare più energie per tenersi al caldo e, non essendo sempre sufficiente la quantità di cibo disponibile, si esporrebbe di nuovo al pericolo della denutrizione. Oltre a correre il rischio di avvelenarsi ingerendo del petrolio, la ricerca e l’esplorazione petrolifera prevedono delle azioni molto invasive e dannose. Infatti la ricerca di questa materia prima contempla l’utilizzo di onde sismiche, dinamite e costruzioni imponenti che vanno a contaminare definitivamente gli habitat naturali in cui vivono questi animali.
Una specie a rischio
L’orso polare è attualmente reputata una specie a rischio di estinzione. La sua sopravvivenza è ogni giorno, sempre di più, messa a dura prova dall’aumento delle temperature e dalla scomparsa costante e veloce del suo habitat. Lo scorso anno è stato stabilito un nuovo record negativo. Negli ultimi 50 anni di storia, non si era mai registrata un’estensione così ridotta della banchisa polare.
È sotto gli occhi di tutti che il riscaldamento globale è sempre più forte. Il territorio che ospita animali come gli orsi polari sta piano piano scomparendo. Nel mese di novembre il ghiaccio dovrebbe estendersi, per permettere agli orsi di riprodursi e cacciare, ma incredibilmente, si è assistito al fenomeno opposto. Il ghiaccio che si stava formando non è riuscito a compattarsi in un unico blocco solido e si è frammentato a causa delle temperature troppo alte.
Il ghiaccio marino, la casa di questo grande mammifero, che si forma sempre più tardi in autunno, e si scioglie sempre più presto in primavera, sta quindi inesorabilmente scomparendo. Se il riscaldamento globale continuasse con questo ritmo, nel 2035, assisteremmo a un mare artico privo di ghiacciai durante i mesi estivi. Inoltre, sempre basandosi su tali supposizioni, si prevede l’estinzione di questa specie intorno al 2100.
Tutto quello che sta succedendo non è altro che la prova di un’incapacità della classe politica che governa il nostro tempo. Inoltre, la situazione drammatica in cui versa questa specie in via di estinzione, simboleggia il fallimento dell’uomo nel tentativo di salvaguardare il proprio pianeta.
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