Misurare la bellezza di un film, così come di un’opera d’arte, è qualcosa di altamente soggettivo. C’è chi si concentra maggiormente sull’estetica, chi sulla capacità interpretativa degli attori, chi sulla trama o sulla sceneggiatura. Molto spesso, inoltre, tanto più l’opera appare complessa, tanto più risulta intrigante e interessante.
Non sembra dunque esistere un metro di misura oggettivo per giudicare un contenuto audiovisivo. La sua complessità lo rende ineffabile. Nonostante questo, in qualità di spettatori, spesso si fatica a percepirne la grandezza: il film sembra qualcosa di immediato, perfettamente realizzato e necessario. Insomma, sembra che il susseguirsi delle scene debba inevitabilmente corrispondere al contenuto scelto dall’autore. D’altronde, consiste proprio in questo la bravura della regia e del montaggio: produrre nello spettatore una sensazione di continuità e assoluta fluidità. Si vuole fare in modo che ciò che viene visualizzato sullo schermo risulti vero e inevitabile.
All’interno del mare magnum cinematografico, la scelta ricade sull’approfondimento di un aspetto della produzione cinematografica: la sceneggiatura. La volontà di trattare in questa sede una delle fasi fondamentali, ma alquanto controverse e discusse, della scrittura filmica, è giustificata dalla necessità di portare chiarezza, oltre che stimolare l’interesse dei presunti spettatori.
Ogni contenuto audiovisivo (in particolare cinematografico) ha origine a partire da un contenuto letterario. Alla base di tutto deve inevitabilmente esistere una storia. Solo in un secondo momento, questa verrà rielaborata e riprodotta in modo tecnico sulla scena.
Questo articolo introduce il concetto di sceneggiatura, con esemplificazioni e riflessioni riguardo la sua natura. In seguito si procede con la spiegazione di due modelli teorici: la sceneggiatura secondo il “paradigma di Syd Field” e il “viaggio dell’eroe di Vogler” (opera di due sceneggiatori americani).
La sceneggiatura: chiariamo alcuni dubbi
Due facce della stessa medaglia
La sceneggiatura coincide con la trama del film? Ecco un primo importante quesito da chiarire. È bene per prima cosa non confondere la sceneggiatura di un film con la sua trama. Quest’ultima infatti consiste nell’intreccio degli eventi, scelto ed espresso dal narratore della storia. La sceneggiatura è invece ciò che Syd Field definisce “storia raccontata per immagini”. Essa consiste nella tappa finale del processo di pre-produzione, ovvero la fase che precede l’inizio delle riprese.
Come intuibile dall’espressione di Field, la sceneggiatura è un ibrido, che si trova al confine tra letteratura e arti visive: è una scrittura in prosa, ma non ha valore autonomo. Nonostante sia un testo scritto, la sua lettura appare alquanto ostica e noiosa: presuppone dunque una messa in pratica.
La sceneggiatura è una tappa imprescindibile del percorso di scrittura filmica, ma non tutti i registi ne prestano la medesima attenzione. È molto curioso il caso di Hitchcock, il quale riteneva addirittura che la produzione di un film terminasse con il processo di scrittura della sceneggiatura. Ciò dimostra l’estrema accuratezza e organizzazione del regista. Nonostante l’esempio possa apparire come un eccesso, ne dimostra l’essenzialità. Il “paradosso” della sceneggiatura costituisce dunque un limite invalicabile, un punto di equilibrio tra due mondi alquanto separati, ma altamente interconnessi e vicendevolmente dipendenti.
La “regia invisibile”: quando lo sceneggiatore lascia tracce al regista
Non sono pochi gli sceneggiatori che realizzano nella sceneggiatura una “regia invisibile”. Nonostante la sceneggiatura non consista in un’indicazione tecnica delle pratiche di regia, molti sfruttano le peculiarità della scrittura per “lasciare intuire” movimenti di macchina o inquadrature. A partire dalla stesura della prosa, grazie al particolare utilizzo di parole o segni di punteggiatura, gli sceneggiatori costellano le pagine di indicazioni silenti e nascoste.
Si consideri questo esempio:
«C’è una tazzina di caffè sul tavolo»/ «Marco entra e beve il caffè».
Questo tipo di scrittura presuppone una prima inquadratura sulla tazzina di caffè (quindi su un dettaglio) e una seconda inquadratura su Marco, il personaggio che entra nella stanza.
Diverso è il caso di:
«Marco entra nella stanza e beve il caffè sul tavolo».
Nonostante il contenuto espresso e i movimenti del personaggio siano gli stessi, la “regia silenziosa” sottesa è differente. In questo secondo caso l’inquadratura immaginata dallo sceneggiatore è probabilmente univoca e non focalizzata sul dettaglio della tazzina di caffè. Basta cambiare la disposizione degli elementi linguistici e della punteggiatura per evocare diversi stili di regia. Ciò dimostra come lo sceneggiatore, in una fase ancora preliminare alle riprese, possa attivamente contribuire alla scrittura filmica, seminando indizi che potrebbero essere successivamente colti dal regista.
Ma che aspetto assume praticamente una sceneggiatura?
La sceneggiatura letteraria consiste nella stesura in prosa, scena per scena, di ciò che avviene all’interno del film. L’idea è rappresentare gli elementi visivi e sonori che compongono la scena, per dare risalto a vista e udito. L’obiettivo è focalizzare gli elementi essenziali di un film: le azioni e i dialoghi.
Le azioni devono rappresentare esaustivamente i movimenti dei personaggi e del profilmico (ciò che viene inquadrato dalla macchina da presa). La sceneggiatura deve dunque descrivere in modo semplice ciò che lo spettatore è destinato a vedere all’interno della scena. L’obiettivo è fornire al regista informazione esaustive ma minimali, in modo che esso possa utilizzare tale materiale come linea guida durante le riprese. I dialoghi devono invece essere “cuciti addosso al personaggio”. Non devono essere ridondanti rispetto all’azione, ma la devono completare in modo fluido.
Come appare visivamente una pagina di sceneggiatura? La disposizione degli elementi è lineare e il più possibile schematica e ordinata, in modo da evitare possibili ambiguità. Il titolo comprende location, posizione della macchina da presa e condizione della luce. Ciò è utile per riprodurre le informazioni di base della scena, in modo che siano immediatamente visibili.
In seguito vengono disposte sulla pagina azioni e dialoghi, come precedentemente spiegato. Nella sceneggiatura all’americana (attualmente la più utilizzata anche in Europa) le azioni sono disposte linearmente sulla pagina, occupando l’intero spazio. Al contrario i dialoghi appaiono centrali. Infine, per quanto riguarda la lunghezza del documento, in media una sceneggiatura occupa dalle 90 alle 120 pagine, a seconda della durata della pellicola.
Comporre una sceneggiatura: la scuola empirista americana
La composizione di una sceneggiatura è un processo complesso. Esistono differenti approcci che possono essere seguiti. Si individuano in particolare due differenti scuole di pensiero: la scuola empirista americana e quella di matrice europeista. La scuola di timbro europeo ritiene possibile disattendere le regole e allontanarsi da vincoli troppo rigidi, preferendo prestare attenzione alla componente linguistica. La scuola di matrice statunitense considera invece essenziale, per redigere in modo corretto una sceneggiatura, seguire delle semplici regole di scrittura. Ed è proprio tale modello di comportamento a essere prevalso, trasformandosi nel tempo in un modello di scrittura di base. Appartengono alla scuola empirista americana due studiosi fondamentali, i quali hanno dato origine a due modelli di scrittura, divenuti paradigmi teorici di base a cui ogni film può essere ricondotto. Si tratta di Syd Field e Vogler.
Il paradigma di Syd Field
Syd Field immagina ogni storia divisa in tre atti e pone al centro un eroe, protagonista delle vicende. La necessità di dividere la storia in tre atti, così come il racconto teatrale, permette di evitare uno sbilanciamento tra le parti. Appare più semplice per uno scrittore monitorare le vicende di una storia, evitando atti troppo lunghi o sproporzionati. La storia, secondo Field, deve contenere più punti di svolta e rovesciamenti. Ciò determina l’avanzamento degli eventi e ne determina la risoluzione sul finale. Esaminiamo ora nel dettaglio.
Il primo atto: l’equilibrio iniziale e l’evento traumatico
La storia inizia immersa in un mondo equilibrato, in cui l’eroe vive in armonia. Un evento traumatico giunge per rovinare tale equilibrio, invogliando l’eroe all’azione. Quest’ultimo percepisce delle necessità e matura un desiderio, l’obiettivo verso cui far convergere tutte le azioni. Il primo atto della storia consiste dunque in una presentazione di eventi e personaggi, palesando l’evento traumatico che innesca la vicenda.
Il secondo atto: il “primo plot point” e il “punto di non ritorno”
Nel secondo atto l’eroe si scontra con l’antagonista per raggiungere l’oggetto del desiderio. Dunque esso costituisce un atto movimentato, caratterizzato dalla competizione. A cavallo tra il primo e il secondo atto si inserisce il “primo plot point”, un evento che determina una svolta all’interno della vicenda e apre la storia in un’altra direzione. Insomma, consiste in un cambio di scena, una rivoluzione che apre infinite possibilità di sviluppo delle vicende. Se pensiamo a un film come Gli Aristogatti, il “primo plot point” coincide col momento in cui i gatti, su consiglio di Romeo, salgono sul camion diretto a Parigi. Tale evento è fondamentale perché da una svolta alla storia: inizia così il viaggio di ritorno.
Secondo Field a metà storia si posizionerebbe inoltre il “punto di non ritorno”, un evento rivoluzionario che impedisce la restaurazione della situazione iniziale. I personaggi, radicalmente trasformati, devono muoversi necessariamente verso il finale. Ne Gli Aristogatti esso coincide al momento in cui Duchessa sceglie nuovamente di tornare a casa, rifiutando l’invito di Romeo nonostante l’amore che prova per lui. La storia cambia radicalmente direzione e conduce verso il finale.
Il terzo atto: il “secondo plot point” e il finale della storia
A cavallo tra il secondo e il terzo atto si presenta invece il secondo plot point. Questo rappresenta una battuta d’arresto, un’ulteriore (e apparentemente definitiva) sconfitta del personaggio. In realtà, questo momento non coincide con il finale: il personaggio, insieme agli alleati, compie un’ulteriore battaglia. Riprendendo ancora una volta Gli Aristogatti, l’evento coincide con il momento in cui i gatti arrivano a casa, ma vengono nuovamente catturati da Edgar. Il terzo atto implica la risoluzione degli eventi. Il ritmo, sempre più concitato, conduce allo scontro finale. Dopodiché la situazione di equilibrio, trasformata rispetto a quella iniziale, viene restaurata.
Il “viaggio dell’eroe” di Vogler
Vogler, il secondo sceneggiatore della scuola empirista americana, propone un percorso narrativo diviso in 12 tappe, in parte sovrapponibili al paradigma di Field. Secondo Vogler l’eroe, a partire da un evento drammatico, viene catapultato in un viaggio psichico dentro sé stesso. L’obiettivo è identico a quello di Field: raggiungere l’obiettivo e appagare il desiderio. Le tappe del viaggio sono sempre presenti all’interno di una storia: nonostante possano essere alterate nell’ordine, costituiscono uno scheletro insostituibile e invariabile.
Le 12 tappe del “viaggio dell’eroe”
All’inizio della storia l’eroe vive in un mondo ordinario, in pieno equilibrio con lo spazio e i personaggi (1). Un evento drammatico interrompe l’utopica condizione e (in modo figurato) spinge l’eroe all’avventura (2). Riprendendo ancora l’esempio de Gli Aristogatti, i gatti vengono catturati da Edgar; ciò urta l’iniziale condizione di equilibrio e obbliga i personaggi a maturare un obiettivo e iniziare il viaggio.
Immediatamente l’eroe sembra rifiutare il richiamo all’avventura per paura dell’ignoto (3). Successivamente però, grazie all’aiuto di un mentore (4), decide di intraprendere il viaggio. Ciò corrisponde al punto che Vogler definisce come “varco della prima soglia” (5). Cosa si intende per mentore? Il mentore è l’aiutante dell’eroe e spinge quest’ultimo ad agire, fornendogli gli strumenti adatti. Nel film d’animazione preso in analisi, il mentore è Romeo, il gatto randagio che fornisce agli Aristogatti le indicazioni per tornare a Parigi.
A quel punto l’eroe intraprende il viaggio (6): incontra personaggi, amici, prove. Ciò lo conduce a “varcare la seconda soglia” e avvicinarsi all’oggetto del desiderio, ben custodito (7). Gli Aristogatti, per esempio, in questa tappa si avvicinano alla casa della loro padrona, arrivando a Parigi.
A questo punto si arriva alla tappa più importante, la prova suprema (8). Qui l’eroe deve affrontare una sfida importante, che lo avvicinerà maggiormente all’oggetto del desiderio, ottenendo premi (9). La prova suprema coincide con il “punto di non ritorno” di Field e quindi, nell’esempio Disney, alla scelta di Duchessa nella notte parigina. Così l’eroe torna a casa, affrontando una serie di altre prove, che lo condurranno vicino alla morte (10). La sua resistenza darà però vantaggi (11) che gli permetteranno di ripristinare un equilibrio migliore rispetto a quello iniziale (12). Ne Gli Aristogatti, Romeo entra a far parte della famiglia, coronando il sogno di Duchessa.
FONTI
V. Buccheri, Il film. Dalla sceneggiatura alla distribuzione, Carocci editore, Roma.
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