Tra il 2003 e il 2005 la vita di Joan Didion, una delle più importanti giornaliste, scrittrici e saggiste statunitensi, viene completamente sconvolta da due tragedie, la morte prima del marito, John Gregory Dunne, e poi della figlia, Quintana Roo.
Nel dicembre 2003, mentre Quintana si trova in coma per uno shock settico risultato di una polmonite, John Dunne ha un attacco di cuore mentre cena con la moglie. Il suo funerale viene celebrato solo tre mesi dopo quando finalmente la figlia si riprende. In seguito alla morte del padre, Quintana decide di tornare a Malibu dove la famiglia aveva vissuto quando era piccola. Proprio durante questo viaggio, che avrebbe dovuto alleviare il dolore per la perdita del padre, Quintana cade e sbatte la testa subendo delle forti lesioni cerebrali. Da questo incidente si riprende, o almeno così sembra, finché nel 2005 muore di pancreatite. Quintana aveva 39 anni.
Da questi eventi nascono due memoir: L’anno del pensiero magico e Blue Nights. I due libri, però, sono completamente diversi. L’anno del pensiero magico racconta di una situazione in un certo senso comune di cui molti hanno fatto o faranno esperienza: la morte della persona amata. È un libro in un certo senso necessario per Didion che cerca di esorcizzare il suo dolore; viene citata non a caso la teoria di Freud che oppone il lutto, un percorso che permette di fare i conti con il dolore della perdita di una persona amata, alla malinconia, un processo invece patologico. Secondo questa teoria, il lutto è un percorso necessario, che richiede molto lavoro su se stessi, ma che alla fine permette di elaborare la perdita.
Blue Nights invece racconta un lutto e un risentimento così personali e intimi che il lettore non si trova mai a partecipare alla sofferenza della scrittrice, come accadeva nel suo primo memoir, ma guarda Joan Didion struggersi e distruggersi. Qui infatti a guidare la scrittrice non è la fiducia che il lutto verrà elaborato, ma il nichilismo di chi ormai si è arreso al fatto che niente possa alleviare il dolore che causa la perdita di un figlio, un fato che già il tragediografo greco Euripide considerava il peggiore.
E se non sono in grado di prendermi cura di questa bambina?
E se questa bambina non cresce bene, e se questa bambina non riesce ad amarmi?
E peggio ancora, molto peggio, tanto da essere impensabile, salvo che io ci ho pensato, chiunque abbia mai aspettato di portarsi a casa un bambino lo pensa: e se non riesco ad amare questo bambino?
Blue Nights parla di lutto tanto quanto parla del rimpianto di una madre che si chiede se abbia fatto abbastanza e che sa che se non fosse così non avrà mai l’occasione di sistemare le cose o chiedere scusa. Joan Didion gioca a carte scoperte, non nasconde le sue dimenticanze, le cose a cui non ha dato importanza, gli errori. A partire da quello di costruire una sorta di mito famigliare su come Quintana era stata adottata.
A una festa Didion confessa a un’amica, l’attrice Diana Lynn, di voler adottare un bambino, Diana allora le presenta un dottore che può aiutarla e di lì a poco ecco la chiamata: “Ho una bella bambina qui al St. John’s“. Didion e suo marito si precipitano in ospedale e decidono di chiamare la bambina Quintana Roo:
Avevamo visto il nome su una mappa mentre eravamo in Messico qualche mese prima e ci eravamo ripromessi che se mai avessimo avuto una figlia (un’idea campata in aria, non c’era nessuna figlia all’orizzonte) l’avremmo chiamata Quintana Roo. Il posto sulla mappa chiamato Quintana Roo non era ancora uno stato, ma un territorio. […] Il posto sulla mappa chiamato Quintana Roo era ancora terra incognita. […] Terra incognita, per come l’avevo intesa fino allora, significava priva di complicazioni. Che la terra incognita potesse presentare le proprie complicazioni non mi era mai passato per la testa.
Questa storia era la preferita di Quintana che chiedeva al padre di ripetergliela ancora e ancora, ma era anche un motivo di paura per la bambina: “E se non aveste riposto al telefono quando il dottor Watson ha chiamato? Diceva all’improvviso. E se non foste stati in casa, e se non foste riusciti a incontrarlo in ospedale, se ci fosse stato un incidente sull’autostrada, che ne sarebbe stato di me?“.
Il mito costruito intorno alla piccola, bellissima bambina porta la madre a non riuscire a vedere sua figlia come una persona a sé, con una propria storia. Didion confessa: “Solo in seguito mi avvidi che l’avevo allevata come una bambola“, e ancora: “Era già una persona. Non mi ero mai concessa di vederlo”.
Il lettore tuttavia sa che queste domande, il continuo chiedersi “Ero io il problema? Ero sempre stata io il problema?“, non sono fondate. La relazione tra madre e figlia traspare attraverso dubbi e ricordi e il lettore è costretto a confrontarsi con la difficoltà di questo rapporto così pieno di amore, di incomprensioni reciproche, di bisogni soddisfatti e non.
Ciò che mi è sfuggito finora, ciò che adesso riconosco, ma che non ero riuscita a vedere nelle fotografie all’epoca in cui furono scattate, è quel misto di profondità abissali e di levità delle sue espressioni, una serie di cambiamenti d’umore repentini.
Come avevo potuto lasciarmi sfuggire qualcosa che era proprio lì da vedere?
Le storie che ci raccontiamo per sopravvivere a volte si rivelano false e solo in seguito ci rendiamo conto di esserci ingannati. Ci illudiamo di tante cose: di capirci, di sapere come funzionano le cose, di saper fare qualcosa, pensiamo persino di poter sfuggire al tempo, crediamo che le nostre blue nights non finiranno mai, eppure dobbiamo renderci conto che non è così.
Il fenomeno delle “notti azzurre” che dà il titolo al libro è un fenomeno naturale che accade solo a certe latitudini nel periodo che precede il solstizio d’estate, il crepuscolo si fa lungo e si tinge di una luce azzurra che si infittisce gradualmente per lasciare spazio alla notte. Il periodo della notti azzurre è l’attimo in cui pensi che la fine del giorno non arriverà mai, dice Didion, e quando le blue nights finiscono senti un brivido lungo la schiena perché ti rendi conto che l’estate è finita, senti come imminente la fine della promessa, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore.
In Blue Nights Joan Didion si mette veramente a nudo e ci mostra l’orrore dello scorrere del tempo, nella consapevolezza di non avere difese davanti alla perdita non solo delle persone care, ma anche di se stessa. Didion ci racconta la sua vecchiaia, la necessità di scendere a patti con la malattia, con l’inadeguatezza corporea e l’incapacità di fare cose che sono sempre sembrate più che naturali, da allacciarsi le scarpe a scrivere. E intanto fa di tutto per avere fede, si impone di “mantenere lo slancio”.
Sembra che la mia sicurezza cognitiva sia svanita del tutto. Persino l’atteggiamento corretto per dirvi questo, i modi per descrivere quello che mi sta succedendo, l’angolazione, il tono, le parole stesse ormai mi sfuggono di mano.
Il tono deve essere franco.
Bisogna che vi parli con franchezza, bisogna che affronti l’argomento di petto per così dire, ma qualcosa me lo impedisce.
Cosa mi succede? É un’altra forma di neuropatia, una nuova fragilità, non sono più capace di parlare con franchezza?
Questo memoir può essere visto, similmente a L’anno del pensiero magico, come un modo per liberarsi dagli eventi attraverso la scrittura. Se questo era l’intento, il lettore ha comunque l’impressione che il trucco stavolta non riesca. L’anno del pensiero magico era un libro che procedeva con precisione millimetrica, metteva in ordine gli eventi e riusciva a navigare il lutto proprio grazie a questo potere del riordino.
Del resto già nelle sue opere precedenti Joan Didion era riuscita a creare uno stile in grado di raccontare anche il caos e i disastri del mondo in modo diretto e perfettamente lineare. Per esempio, in Verso Betlemme sono raccolti una serie di scritti che rappresentano un tentativo di comprendere lo stile di vita degli hippie di San Francisco. In questo libro la scrittrice riesce a raccontare con il suo tono misurato, anche se non indifferente, di una bambina di cinque anni a cui i genitori hanno somministrato del LSD per “aprirle la mente”.
Nel libro Joan Didion ci offre un esempio del modo in cui scriveva “prima”: senza preoccuparsi di quello che diceva finché non lo aveva già scritto, perché “non facevo altro che abbozzare un ritmo e lasciare che fosse il ritmo a dirmi cosa stavo dicendo“. È un processo quasi musicale in cui i personaggi senza nome sono indicati solo come “lui” o “lei” e al posto delle battute dei dialoghi troviamo “x”, “xx” o “xxx” a segnare non quello che i personaggi pronunceranno, ma appunto il ritmo di ciò che diranno. Eppure “ora” questo procedere a furia di x è scomparso, “non mi riesce più facile“.
“E se la mia nuova incapacità di evocare la parola giusta, il pensiero appropriato, il collegamento che permette alle parole di avere un senso, il ritmo, la musica stessa… E se questa incapacità fosse sistematica? E se non riuscissi più a individuare le parole che funzionano?“. Le paure di Joan Didion pervadono la pagina, la paura di alzarsi da una sedia dopo aver assistito a delle prove teatrali, la paura di cadere in mezzo alla strada, quella di non riuscire più a scrivere.
Sembra quasi che un ordine non ci sia più, che non sia più possibile trovarlo, pur essendosi tanto sforzati per imporlo. Il libro procede quindi per ricordi e aneddoti, non raccontati in modo coerente, ma così come si presentano alla memoria, sparsi e spesso ripetuti più volte. La completa impossibilità di gestire gli eventi e di lasciar andare la figlia, evidente dalla difficoltà di parlare di lei in modo diretto, risultano nella distruzione dell’ordine e della struttura lineare del racconto.
“Hai i tuoi meravigliosi ricordi’ diceva, dopo, la gente, come se i ricordi fossero una consolazione. I ricordi non lo sono. I ricordi, per definizione, riguardano tempi andati, cose che non ci sono più. I ricordi sono le divise della Westlake nell’armadio, le fotografie sbiadite e sgualcite, gli inviti di nozze per matrimoni di gente che non è più sposata, cartoncini commemorativi per funerali di persone di cui non ricordi più i volti. I ricordi sono tutto ciò che non vuoi più ricordare.
Lo smarrimento è un tema che Joan Didion aveva affrontato attraverso le figure di molte sue eroine, eppure in questo libro è molto diverso, è un senso di torpore davanti allo scacco del tempo, come un inebetimento che impedisce di andare avanti. È la sconfitta tra le altre cose dell’arte: davanti all’ultimo assalto della vita, la vecchiaia e poi la morte, nemmeno l’arte, nemmeno la scrittura possono servire. A prevalere è la paura per ciò che c’è ancora da perdere.
FONTI
Joan Didion, Blue Nights, Il Saggiatore, 2012
Joan Didion, L’anno del pensiero magico, Il Saggiatore, 2017
Griffin Dunne, Joan Didion: il centro non reggerà, 2017, Netflix
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