Antonio Carnevale è regista e attore nella Compagnia Carnevale, fondata a Milano nel 2016. La compagnia porta in scena teatro contemporaneo, accanto a studi e approfondimenti di testi classici e recupera uno dei generi più importanti della tradizione italiana: la commedia dell’arte. In questo periodo di chiusura obbligata dei teatri segue un’intervista che è anche una riflessione su cosa voglia dire produrre uno spettacolo e recitare in teatro.
Raccontaci qualcosa di te: come ti sei formato?
Ho sempre un po’ di difficoltà quando parlo della mia formazione perché ho cominciato molto tardi a fare teatro. L’ho sempre studiato, finché mi sono reso conto di voler passare all’atto. Insomma, studiandolo me ne sono innamorato. Prima ho fatto seminari occasionali in Italia, poi ho avuto la possibilità di andare in Belgio e ho frequentato un master di specializzazione in Arte dello spettacolo dal vivo. Ciò mi permetteva di studiare teatro, ma anche di farlo in maniera pratica, infatti c’erano moltissimi seminari di diverse pratiche teatrali. Grazie al master ho un po’ approfondito la parte pratica e da lì ho deciso di fare una scuola.
Ho allora frequentato a Parigi un bienno di Académie Internationale des Arts du Spectacle (A.I.D.A.S.), diretta da Carlo Boso e Danuta Zarazik. Questa è una a scuola particolare perché completamente dedicata allo studio delle tecniche della commedia dell’arte e così sono riuscito ad approfondire il mio amore per le maschere. Quella scuola è stata per me molto importante e particolare perché alla fine del terzo anno mi sono formato come compagnia. Durante la formazione si può infatti partecipare al Festival d’Avignone Off, presentando dei lavori al pubblico. La scuola forma professionisti che hanno degli spettacoli pronti, entrando subito nel mercato (diversamente dall’Italia in cui le scuole non formano compagnie).
Ho poi deciso di tornare in Italia e ho approfondito la mia formazione con i grandi maestri della Scuola del Piccolo Teatro come Enrico Bonavera, Giorgio Bongiovanni, Stefano De Luca e ogni volta che ne ho la possibilità cerco di studiare ancora. Come regista, ho messo in pratica gli studi con la messa in scena di un “Arlecchino” di Marivaux, un autore poco conosciuto in Italia. Questo è stato il primo spettacolo della compagnia, nata nel 2016; da allora lo portiamo in giro.
Tu sei sia regista che attore. A quale dei maestri devi maggiormente la tua formazione in quanto regista e a quale in quanto attore?
Ho avuto una formazione un po’ irregolare, diversa dalle accademie tradizionali. All’interno della compagnia io mi definisco un po’ un capocomico: di solito inizio a scrivere i testi io, ma poi li propongo agli altri attori della compagnia, così come le decisioni per le scene. È tutto molto morbido e nel pratico il mio ruolo di regista è solo giustificato dall’esperienza maturata negli anni.
Voi, come compagnia, avete scelto di portare in scena un genere un po’ “bistrattato” nel mondo del teatro: la commedia dell’arte. Da dove nasce questa esigenza?
Dal momento in cui ho iniziato a fare l’Arlecchino nel 2011 in uno spettacolo della Scuola ad Avignone, mi sono innamorato di questo personaggio. Per me è un amore incredibile che si ripete ogni volta che metto la maschera; nel momento in cui poi si riesce a trovare un contenitore per questo amore, come “Arlecchino” di Marivaux appunto, si trovano concretamente le soluzioni per la quotidianità. Mi rendo conto che quando incontriamo il pubblico funziona allo stesso modo: vediamo i sorrisi sul viso della gente e la gioia, siamo in grado di trasmettere qualcosa. Solo grazie a questo riusciamo a capire la nostra utilità pratica. Sorgono dunque delle questioni. Ora che siamo chiusi, come sta il nostro pubblico? La gente ha bisogno di teatro, ha bisogno di “arlecchini”?
Mi è rimasta molto impressa una giornata. Abbiamo portato il nostro “Arlecchino” ad ÀP (Accademia popolare dell’antimafia e dei diritti), in una matinée per i ragazzi. Siamo rimasti stupidi dal loro divertimento e dal fatto che al termine dello spettacolo ci abbiano fatto domande sulle maschere. Non è vero che la commedia dell’arte è un genere antico e trascorso. Inoltre, non essendo un teatro e intellettuale poiché mette al centro il corpo e l’archetipo, può essere capito da tutti. Da qui deriva la grande democrazia della commedia dell’arte e il poter parlare a chiunque…beh, cosa si può desiderare di più?
Passiamo ora a un altro vostro spettacolo, Ricorditi di me che son la Pia che ha recentemente ottenuto il patrocinio del Comitato Nazionale per la Celebrazione dei Settecento anni dalla morte di Dante. Per quale ragione avete scelto di portare in scena Pia de’ Tolomei e perché portare in scena Dante?
Tutto parte da un mio interesse per Dante; sono laureato in lettere e ho amato la Divina Commedia, in particolare alcuni personaggi davvero indimenticabili. L’Opera è un serbatoio di spunti e idee a livello teatrale. Pia è un personaggio di una dolcezza incredibile. Diversamente dalle altre anime che corrono incontro a Dante per chiedere di intercedere per loro, Pia aspetta e rimane in disparte. Il canto si chiude in sospeso con una trovata eccezionale di Dante.
Da lì è nato il mio interesse e ho iniziato a studiare per cercare di saperne di più. Ho scoperto esistere varie opere dedicate a Pia de’ Tolomei: un’opera di Donizetti, un famoso album di Gianna Nannini, delle tragedie e un film degli anni ’30. La vicenda biografica resta invece avvolta nel mistero. Il personaggio storico è difficile da ricostruire e si suppone che Pia sia stata uccisa dal marito. Il tema è purtroppo di una contemporaneità disumana e da qui nasce la scelta della messa in scena. Ho cercato allora di rendere teatrale la Commedia, facendo uno zoom su un solo personaggio. Ho messo allora Pia a dialogare con un’anima che sta correndo verso Dante, dando origine alla storia.
All’interno dello spettacolo abbiamo deciso di inserire anche un’artista, Adelaide Gnecchi Ruscone, che in scena crea su tessuti dei ritratti al carboncino, accanto a della musica dal vivo. Si evidenzia allora la necessità di voler lasciare una traccia da parte di Pia. La prima volta abbiamo debuttato a Ravenna nei chiostri francescani, a dieci metri dalla tomba di Dante! È stata un’operazione interessante perché nella prima edizione dello spettacolo Pia è stata interpretata da Adèle Frantz, che recitava in lingua francese; si è creata allora una commistione tra l’italiano e il francese, che ha avuto molto successo.
Dunque, secondo te, il teatro può essere mezzo di divulgazione dell’alta letteratura (come la Divina Commedia)?
In Italia purtroppo la parola “divulgazione” viene demonizzata. Quando ho cominciato a proporre Dante a teatro le prime reazioni non sono state totalmente positive, poiché si credeva di toccare la sacralità del Poeta. Se il teatro può diventare un veicolo per far conoscere i temi proposti da Dante al pubblico ampio, che male c’è? Abbiamo messo in scena Pia in una piccola biblioteca di periferia milanese davanti a un pubblico vario. Un ragazzino di quindici anni, alla fine dello spettacolo, è venuto a chiederci i titoli delle canzoni e ha empatizzato con Pia: così piccolo, ha capito un tema di tale importanza e da grande forse, studiando la Divina Commedia, si ricorderà dello spettacolo. La messa in scena gli ha dato la possibilità di avvicinarsi a Dante, senza “rovinare” l’opera del Poeta.
Oggi si parla molto di una ripartenza per i teatri. Nella speranza che ciò avvenga davvero, avete progetti immediati come compagnia? Come pensate di ripartire?
La ripartenza deve fare i conti con il grosso problema economico. La pandemia ha fatto concretamente ripensare al nostro lavoro. In questo periodo abbiamo fatto delle proposte, cercando di trovare delle soluzioni alternative, ma il nostro lavoro, sia sul palco che fuori, resta incontrare le persone. Senza relazione non esiste il nostro lavoro. Pensare il teatro senza il pubblico è molto complicato. L’online dunque non sostituisce assolutamente il teatro, che è uno spazio di condivisione in cui si partecipa a una vita altra insieme ad altre persone che vivono quel momento con te.
La pandemia ha fatto emergere quanto la situazione del teatro italiano sia insostenibile. In questi mesi molti di noi hanno preso consapevolezza del dramma esistente nel teatro e hanno iniziato a sviluppare una coscienza di categoria. Molti ora non accettano più condizioni che erano accettabili precedentemente la pandemia. Sono nate diverse realtà: per esempio Amleta, in cui un gruppo di attrici mette luce, monitora varie situazioni esistenti nei teatri. Nasce anche una consapevolezza di genere nel teatro: perché gli autori dei testi e i registi sono sempre uomini quando in realtà i corsi di teatro sono prevalentemente frequentati da donne?
Io stesso sto scrivendo un testo su Marylin. Ho cercato però di usare un metodo diverso. Ho capito infatti di dover usare un punto di vista femminile: allora ho utilizzato solo i testi privati di Marylin, senza scrivere personalmente, ho cercato di mettermi da parte per dar voce a lei. Questi mesi allora possono essere, nello sconforto e tragedia, un momento utile per sistemare cose impensabili e che porterebbero a disastri durante una ripartenza. Insomma, sarà una ripartenza difficile e delicata.
Per finire: secondo te gli spettatori torneranno da soli in sala, oppure ci sarà bisogno di una qualche “spinta” da parte dei teatri?
Dipende dal pubblico a cui ci riferiamo, poiché esistono diverse fasce di pubblico. Naturalmente il pubblico di “addetti ai lavori” correrà a teatro poiché percepisce il teatro come bisogno. Temo un po’ di più il pubblico che era già difficile da intercettare prima della pandemia. C’è meno disponibilità economica, per questo servirà una politica forte per poter portare il teatro al pubblico, poiché il pubblico non avrà la forza di raggiungere da solo il teatro. Bisognerà mettere il pubblico nelle condizioni di poter usufruire dello spettacolo perché avrà delle difficoltà maggiori rispetto al periodo precedente alla pandemia.
CREDITS
copertina: Chiara Stincone
immagine: Chiara Stincone