Il 38% dei migranti in Francia soffre di disturbi mentali, come perdita di memoria, disturbo da stress post-traumatico, depressione, tendenze suicide: tutte condizioni aggravate dall’epidemia di Coronavirus e dalla crisi sanitaria. Quest’ultima ha peggiorato una situazione già difficile a seguito della chiusura di diversi centri di salute mentale e della mancanza di servizi di assistenza psicologica, sociale e sanitaria. Il rapporto condotto da Patricia Loncle e Alessia Lefébure, entrambe docenti di sociologia, evidenzia come un maggiore isolamento possa aggravare situazioni e condizioni già complesse, costringendo i migranti a una maggiore segregazione.
In generale si può dire che la letteratura scientifica è concorde nel ritenere che i disturbi mentali più frequenti nei migranti e richiedenti asilo, comprendenti il Disturbo da Stress Post-Traumatico, la Depressione Reattiva, le Sindromi Ansiose e da Disadattamento, siano di tipo reattivo. La sintomatologia di questi individui interferisce non poco nel percorso di adattamento alla società ospitante, motivo per cui va considerata con grande attenzione e colta come spia di una possibile violenza subita.
All’interno della popolazione composita dei migranti, dove si intrecciano situazioni sociali diverse e difficili, l’ampia presenza dei giovani è un fattore fondamentale per comprendere lo stato di salute della maggior parte dei rifugiati. I disordini provati dai giovani migranti possono derivare dalle condizioni di vita nei paesi di origine, tra cui povertà, conflitti armati, persecuzioni, oppure dalle condizioni del viaggio, dunque dalla durata, dall’insicurezza e mancanza di cure mediche, ma possono anche essere legati alle condizioni di accoglienza nel paese ospitante. La salute mentale nei rifugiati prima, durante e dopo la migrazione apre così a una possibilità di riflessione proprio sul trauma della migrazione.
Migranti: marginalizzazione e segregazione
In questo contesto la capacità di accoglienza sanitaria inadeguata, la scarsa comprensione delle procedure amministrative e la necessità di interpretare sindromi psicotraumatiche per le quali gli operatori sanitari non sono sempre formati non fanno altro che portare a una maggiore emarginazione, a una maggiore segregazione i migranti che provengono da situazioni fisiologicamente già svantaggiate. A prescindere dalle ragioni che portano alla partenza, la migrazione è sempre un evento psicologicamente rilevante.
Ciò è tanto più reale per i giovani uomini, considerati di importanza secondaria rispetto alle famiglie con bambini o alle giovani donne, in particolare per quanto riguarda l’accesso all’alloggio. Questo li porta spesso a periodi di vagabondaggio, miseria e isolamento. In queste circostanze si è aperto un dibattito in relazione all’inserimento e alla stabilizzazione dei rifugiati provenienti da altri Paesi, imponendo soprattutto uno sguardo a quanto accade nelle realtà di accoglienza sanitaria.
A questo si aggiunge il fatto che molti dei giovani migranti sono generalmente disinformati sulle possibilità di assistenza e non cercano aiuto spontaneamente, mentre le misure alternative per raggiungerli si basano essenzialmente sul lavoro volontario. Qui il settore non profit cerca di rispondere in modo specifico ai problemi di salute mentale dei migranti, spesso nell’ambito di un supporto globale, avvalendosi di supporto alle procedure amministrative, alloggi solidali, apprendimento delle lingue e accesso alla cultura locale, compensando in parte le inadeguatezze del supporto istituzionale.
Spazi interni ed esterni
In assenza di questi luoghi di accoglienza, le minoranze etniche tendono generalmente verso l’isolamento e l’appropriazione dello spazio, solitamente attraverso l’insediamento nelle parti degradate e meno sicure delle città, permettendo in questo modo la costruzione di un tessuto sociale comunitario che è di sostegno, almeno in parte, per i membri, e li aiuta nel percorso di inserimento. La presenza di connazionali è un fattore protettivo, sebbene nel caso di gruppi tendenzialmente chiusi possa rappresentare un ostacolo, minacciando un buon adattamento nel lungo termine. La segregazione difatti presuppone per definizione anche una concentrazione spaziale che costituisce delle forti barriere alla piena partecipazione e integrazione nella società.
La misura della segregazione, la comprensione delle forze che la generano, nonché gli effetti della segregazione stessa sugli individui sono tre problematiche strettamente connesse. Un accurato monitoraggio delle dinamiche può permettere di intervenire in modo anche preventivo e di conseguire allo stesso tempo obiettivi di giustizia sociale e di efficienza nell’uso di risorse pubbliche. Le manifestazioni patologiche, infatti, possono essere anche la conseguenza delle condizioni ambientali e psico-sociali in cui si trova l’individuo, con l’aggiunta di un costante stato di stress causato dall’incertezza della propria condizione.
L’evoluzione degli insediamenti e degli spazi dell’immigrazione fornisce un’importante chiave di lettura del livello di integrazione delle diverse comunità straniere, delle forme della convivenza multietnica e delle capacità di accoglienza da parte della città. L’arrivo alla meta infatti, il più delle volte, non è privo di minacce. Anche da un punto di vista psicologico la cultura della madre patria e quella del paese ospitante, spesso profondamente diverse, entrano in conflitto. Come afferma Davide Bruno, psichiatra e autore, nel caso della migrazione la struttura culturale interna non corrisponde più a quella esterna e non può modificarsi con essa, seguendone i cambiamenti.
Segregazione, luci e ombre sul sistema
In un quadro così fragile, la crisi sanitaria legata al Covid-19 ha messo in luce proprio le carenze del sistema. A seguito della chiusura di diversi centri, molti giovani migranti sono diventati ospiti in hotel o ostelli della gioventù per non essere abbandonati. La loro assistenza sociale e sanitaria non è stata presa in considerazione in questi luoghi di accoglienza precari e tanti hanno visto la loro situazione di salute mentale peggiorare ulteriormente dallo scorso marzo.
Le situazioni di salute mentale più critiche, secondo il rapporto di Patricia Loncle e Alessia Lefébure, che si concentra in questo caso sulla situazione francese, si trovano senza dubbio nei centri di detenzione amministrativa. Secondo il rapporto 2019 dell’ONG Terre d’Asile, decine di migliaia di migranti, tra cui molti giovani, sono rinchiusi in questi luoghi di contenimento, in attesa di essere espulsi dal suolo nazionale.
La difficoltà di accesso alle cure, in particolare a quelle psichiatriche, è stata denunciata anche dal rapporto del Contrôleur général des lieux de privation de liberté (CGLPL) nel febbraio 2019, seguito pochi mesi dopo da un rapporto allarmante del difensore civico francese per i diritti. L’interruzione della continuità assistenziale durante la detenzione amministrativa è particolarmente dannosa per i giovani migranti affetti da gravi malattie mentali e la pratica dell’isolamento a fini repressivi spesso aggrava una condizione già rischiosa.
Nuove sfide
Ciò ha portato anche a un aumento della pressione demografica in questi luoghi di detenzione, che non erano pensati per accogliere persone psicologicamente vulnerabili per periodi così prolungati. Per la loro natura di luogo di privazione di libertà e per la loro vocazione di transizione, questi risultano essere spazi ansiogeni dove non è facile distinguere la logica del trattamento da quella del controllo e della repressione, e dove la consulenza psichiatrica ha molti altri problemi oltre a quelli terapeutici, dove il medico che fornisce l’assistenza psicologica non riesce spesso a fornire tutti i servizi.
In Europa un’assistenza psicologica efficace per i giovani migranti deve quindi affrontare contraddizioni interne al sistema. Sebbene i sistemi di sanità pubblica esistano e siano teoricamente aperti a tutti, indipendentemente dalla nazionalità o dalla regolarità amministrativa, i giovani migranti sono resi una popolazione particolarmente vulnerabile ed esposta allo stato di incertezza e precarietà. Il lavoro svolto molto spesso si traduce semplicemente in azioni di riduzione del danno in termini psicopatologici, senza andare in profondità.
Tuttavia, come sostiene lo psichiatra Davide Bruno, è sempre difficile per i clinici che si occupano di questi pazienti accedere ai servizi di traduzione adeguati o poter coinvolgere consulenti in campo socio-antropologico. Il risultato è un sistema incapace di affrontare “una tragedia di salute pubblica”, come definita da James Kirkbride, epidemiologo dell’University College London. Sempre Davide Bruno sostiene che
L’etnopsichiatria sembra attirare su di sé un duplice pregiudizio: quello legato alla malattia mentale e quello legato alla posizione del migrante come soggetto portatore di alterità perturbante.
Un razzismo non troppo sottile
Il problema è quindi rilevante soprattutto in termini sanitari: “È scandaloso che non venga considerato una tragedia, come si farebbe con un’epidemia in ambito medico”, aggiunge Kirkbride. Un disinteresse che potrebbe dipendere da valutazione pregiudiziali. C’è un razzismo sottile e talvolta difficilmente percepibile a primo sguardo nel rifiuto delle istituzioni, sotto il pretesto di motivazioni economiche, di dare spazio a dispositivi e spazi concepiti specificamente per i migranti.
Essi rappresentano una popolazione ai margini dei circuiti di potere, senza diritto di voto e spesso sfruttata sul mercato del lavoro. Una popolazione che quindi non ha voce, soggetta a una doppia emarginazione, in quanto prevalentemente costituita da poveri e stranieri. La conoscenza e la consapevolezza sono perciò di aiuto per conoscere e analizzare in modo rigoroso, al fine di rendere le politiche più efficienti ed efficaci.
Una conoscenza puntale è quindi utile per portare avanti una riflessione più profonda, come ci dimostra spesso il mondo del cinema, attraverso le rappresentazioni della segregazione nelle sue molteplici forme. Dalla segregazione razziale alla rivendicazione femminile, passando per il sentimento di vendetta che vuole arrivare a una forma di giustizia, il prossimo articolo della sezione di spettacolo ci mostrerà un percorso tra quattro film differenti per analizzare i diversi modi con il cinema ha rappresentato la segregazione.