A partire dall’Ottocento, nella pittura europea emerge il tema dell’ingiustizia a livello sociopolitico. Ma anche quello della possibilità e necessità di porre ad essa rimedio attraverso un cambiamento dell’ordine vigente. In questo la pittura segue, con un certo ritardo – se prendiamo come riferimento i Lumi e la Rivoluzione francese – un mutamento generale della cultura.
Quest’ultima riesce a vedere l’ingiustizia nella sua drammaticità, in modo assai più netto di quanto non avveniva in precedenza. E la considera non più come un dato di natura da accettare, ma come un cambiamento necessario. Sarebbe però riduttivo dire solo che la pittura segue le trasformazioni sociali. La pittura, quindi, accompagna anche un percorso di denuncia e azione e lo sostiene, rafforzandolo con i suoi mezzi. Questo ruolo è ben espresso dalle parole di Renato Guttuso:
Non è necessario per un pittore fare una rivoluzione, ma è necessario che egli agisca nel dipingere come agisce chi fa una rivoluzione.
Il messaggio veicolato dalla donna
E in tale contesto un forte protagonismo appartiene alla figura femminile, quasi sempre, però, vista con occhi maschili. Inevitabilmente, si può dire, perché la storia dell’arte si inserisce nel più ampio scenario della storia contemporanea, scritta e ricostruita da uomini. Il talento femminile non ha ma quindi avuto molto spazio e, laddove sia riuscito ad emergere, è stato trascurato o comunque dimenticato.
Ma pur con questo limite, la donna ha un ruolo fondamentale nel tratteggiare una cornice di ingiustizie. A partire dalla pittura che, contro la tradizione, osa gettare in faccia agli osservatori la miseria per quella che è. E una rivoluzione sulla sfacciataggine della narrazione visiva c’era già stata a fine Settecento con Francisco Goya. Il pittore spagnolo aveva infatti sfidato l’osservatore sul piano della sessualità con il dittico Maya Vestida – Maja desnuda (1797-1800). Prima, quindi, il confine era tra ciò che si poteva o non si poteva mostrare, con l’800 è invece giocato sul piano sociale.
Il crudo realismo di Van Gogh
Van Gogh probabilmente non avrebbe definito la sua espressione artistica un’operazione di denuncia. Tuttavia, la scelta di rappresentazione crudamente realistica e lo stravolgimento dei tratti umani con la miseria scrive una delle sue opere più famose. Di conseguenza, I mangiatori di patate (1885) è un quadro che costringe duramente a fare i conti con l’ingiustizia pervasiva della società. Lo dice anche Van Gogh quando scrive:
Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole
(da una lettera dell’autore al fratello Theo).
Se non dobbiamo trovarlo bello, allora si tratta di un quadro terribile. Il volto pregno e sofferto di una famiglia contadina. Attorno al loro tavolo, davanti a un povero pasto serale spiccano anche fragili figure femminili, la cui debolezza è però solo estetica. Perché è frutto di una stanchezza nascosta per la preservazione della famiglia. Così sui volti delle due donne emerge, drammatica, la lontananza dallo stereotipo pietoso che vorrebbe la donna dolce ed eternamente appagata. Van Gogh sceglie dunque di mostrare il demone che convive con la quotidianità contadina: l’abbruttimento generato dalla miseria.
Figure femminili a confronto
Nella sua narrazione femminile, l’artista non accoglie l’ambigua complicità della donna-vittima, che traspare invece del celebre Sabba Delle Streghe di Goya del 1798. Qui, infatti, un gruppo di donne circonda supplicante un caprone dalle fattezze sataniche, intento a officiare un rito di streghe. Al tempo stesso Van Gogh sceglie di liberarsi dal pittoresco delle donne del popolo del pittore milanese Giacomo Ceruti (il Pitocchetto).Pensiamo per esempio alla Lavandaia del 1736, e in generale a tutta la pittura di genere del Settecento, caratteristica, ma indubbiamente limitante nelle possibilità espressive della donna. Come traspare nella Lavandaia dipinta da Jean-Baptiste Greuze nel 1761.
Ma torniamo un attimo a osservare I mangiatori di patate. Se quello che ci viene mostrato trasuda tragedia e povertà, il “non mostrato”, ossia il volto della bambina rappresentata di spalle, inquieta anche di più. Abbiamo quasi paura chela bambina si volti, palesando sul viso infantile i segni certi del degrado alimentare e salutare. Come in un incipiente film dell’orrore, dove però la paura nasconde una triste consapevolezza. E quest’ultima affiora ancor di più se consideriamo un quadro precedente e volutamente di denuncia come Gli spaccapietre (1849) di Courbet. La forza del dipinto è qui un po’ debilitata, proprio perché mancano le donne per equilibrare il realismo della rappresentazione.
Il Quarto Stato: la voce del cambiamento
Un altro tema fondamentale è quello della lotta sociale per i diritti, la cui peculiarità si manifesta nel Quarto Stato, dipinto nel 1901 da Pellizza da Volpedo, maestro del neoimpressionismo italiano. E quel che colpisce subito l’occhio, oltre alla forza tranquilla delle centinaia di lavoratori in marcia, è la figura della donna con il bambino, sulla destra.
Siamo agli inizi del ‘900, in una società dove il ruolo femminile, specialmente in ambito sociale, è ancora relegato alle mansioni domestiche. Eppure, il pittore sceglie di porre in primo piano una donna. Non solo ma, significativamente, usa per questa rappresentazione insolita e valoriale sua moglie Teresa Bidone come modella. L’artista mette quindi in chiaro la volontà di dare rilievo alle possibilità ancora inespresse delle donne. Come i loro colleghi sono lavoratrici, rivoluzionarie e al soldo di una comunità idealmente paritaria.
I ruoli si trasformano, la donna scende in campo
Così i protagonisti del quadro marciano, con pacatezza ma, si noti, col il possibile rischio dello scontro. Tuttavia gli uomini non lasciano a casa mogli o sorelle. Anzi, le invitano a seguirli. Ma forse sarebbe meglio dire che le donne, in prima linea, scelgono di andare, dettando le loro condizioni e portando con loro persino i bambini ancora in fasce.
E la madre in primo piano non è per nulla affaticata. Non emerge quindi quello stereotipo di matrice scolastica della donna oppressa e marginale. Questa avanza piuttosto sicura, con un braccio per tenere il figlio e l’altro per accompagnare l’agire di tutto il gruppo. La sua mano è aperta, imperiosa, lo sguardo vitale, partecipe e interrogativo. Non accompagna nessuno, traccia lei la strada verso il cambiamento.
La donna come simbolo tra Ottocento e Novecento
L’immagine femminile simbolo di denuncia e la donna partecipe del cambiamento sono quindi chiari aspetti delle correnti realistiche. Ma c’è anche un terzo modo di raccontare l’immagine femminile, riprendendo, ma anche rinnovando, stilemi antichi. La donna, quindi, diventa simbolo. Traspare già nell’iconico dipinto Le spigolatrici (1857). Con scelta coraggiosa Jean-François Millet sceglie tre donne per rappresentare la fatica del lavoro. Queste sono prive di una particolare identità, perché devono rappresentare tutti. E si tratta di una scelta contro ogni convenzione, specie trattandosi di un dipinto che sceglie la via della monumentalità tradizionalmente associata alla figura maschile.
Se però in questo caso la donna è simbolo di una categoria o di una condizione, nel Novecento diviene allegoria di valori condivisi. Così è nella Donna che piange, di Pablo Picasso, del 1937. Il pittore parte dunque da una figura del celebre Guernica, tinteggiandola però con colori accesi, mentre con la bocca morde un fazzoletto. Non è una rappresentazione cruda ed esplicita della guerra, ma la sua allegoria rende più evidenti gli effetti sulla psicologia umana. Una madre che piange, alla Corazzata Potëmkin (1926), può esemplificare, ancora una volta, come l’avanguardia del cubismo operi su pensieri antichi. In questo caso il dolore condiviso di un popolo davanti a un immagine femminile.
In testa alla rivoluzione
Ma la donna-simbolo si lega anche alla rivoluzione. Ed è questo il caso della figura centrale del celebre dipinto di Eugène Delacroix, La Libertà che guida il popolo(1830). La donna che avanza tra i cadaveri, tenendo in una mano il moschetto e nell’altra una bandiera francese, porta con sé un messaggio chiaro. Diventa quindi la tangibile manifestazione del futuro diverso per il quale i francesi combattono.
Ma l’opera non è un manifesto idealista. La morte e la disperazione sono rappresentate in primo piano mostrando l’inevitabile prezzo pagato per ogni guerra o rivoluzione. Tuttavia la giovane donna sembra quasi non curarsene, mentre avanza e rivolge il suo sguardo alle persone che la seguono. Sono coloro che, ammaliati, ne seguono l’egida conduttiva, con la consapevolezza che, una volta terminati gli scontri, dovranno ricostruire la nazione seguendo quei valori di cui lei è simbolo. E qui si nota un iconico superamento dello stereotipo femminile.
L’intimità dell’orrore e della paura attraverso lo sguardo
Tornando invece a Picasso ella sua gigantografia di culto: Guernica. Qui la forte espressività connotata dalla mimica facciale delle donne dichiara un rapporto totalmente diverso con la violenza e la morte La tela, infatti, rappresenta l’omonima città durante/subito dopo il bombardamento della legione nazifascista Condor. Per la prima volta in un quadro vengono quindi alla luce gli orrori del Novecento. E ancora una volta, rifuggendo ai canoni estetici di beltà e candore, le figure femminili sono protagoniste di una deformazione orrorifica delle anime, consolidata sulla paura e la violenza.
Le donne vengono stravolte dall’estetica cubista, ma comunque affiorano con dirompenza sulla scena, mentre sembrano muoversi, agitarsi, gridare in preda al panico. L’orrore disordinato e caotico diventa così simbolo di un popolo dilaniato da una guerra, che mostra con trasparenza il suo grido lancinante. Tale tema si ricollega a immagini antiche, anche se con forme nuove, in un nuovo contesto e con una ferma volontà di denuncia. Lo mostrano le impressionanti analogie – anche solo formali – tra Guernica e un quadro di denuncia del dolore inflitto dagli uomini. Si tratta della Strage degli innocenti di Guido Reni, dove ancora una volta, lo sguardo delle donne parla molto più di altri.
La pittura celebrativa
Per quanto riguarda invece i tempi più recenti, consideriamo un esempio di pittura che celebra, nelle forme artistiche tipiche contemporanee, il coraggio delle donne. E partiamo da un titolo molto dichiarativo: Women are heroes. Così l’artista francese JR, esponente del collage fotografico denomina il suo progetto di punta. Questo nasce nel 2007 consta nel ricoprire, in diversi contesti internazionali dove la violenza dell’ingiustizia colpisce di più, tetti e muri di quartieri poveri con gigantografie impressionanti di volti di donne. Oppure anche solo di particolari di quei volti, fotografati e riprodotti poi sul vinile, perché tutti le vedano dalla terra e dal cielo.
Chiudiamo così questa rassegna, chiaramente incompleta, il cui scopo è però quello di proporre storie di valorizzazione femminile attraverso la pittura. In particolare, con attenzione all’ingiustizia e alla lotta contro di essa. Tale analisi va incontro però a un limite, ovvero lo sguardo maschile con cui sono stati riprodotti tali ritratti di donne. Tuttavia è proprio questo l’aspetto intrigante e investigativo.
Basti pensare che alcune di queste immagini femminili sono state utilizzate dai totalitarismi del Novecento e dunque dentro progetti contrari o comunque non conformi al rispetto e alla valorizzazione della persona. Emerge così un’inquietante ambiguità che al tempo stesso affascina. Tuttavia, durante la trasformazione dell’immagine e del pensiero, c’è sempre la speranza di trovare amore e rispetto dietro un’opera d’arte. Il suo valore eterno e universale è infatti indispensabile per osservare l’evoluzione valoriale, verso un racconto al femminile che non abbia più bisogno di distinzioni.
Un commento su “L’evoluzione della donna in pittura tra realismo, simbolo e avanguardia”