Rosencrantz e Guildenstern sono morti
Qual è il vero potere dei classici? Una domanda ridondante, ripetuta da secoli ma la cui risposta è ancora oggi opinabile. Sembra allora confortante affidarsi alle parole di Italo Calvino, il quale, in Perché leggere i classici scriveva:
I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.
In effetti, si potrebbe definire “classico” ciò che non smette di produrre significato attraverso gli anni, addirittura i secoli. È come un oggetto che, osservato da una qualunque prospettiva, appare contemporaneamente uguale e diverso da sé stesso. Si può lavorare e modificare, alterare di significato e stravolgere; l’essenza dello stesso viene comunque conservata.
Parlare di “classici” non può che condurre alla memoria Amleto, l’opera teatrale per eccellenza, l’intramontabile capolavoro shakespeariano. Amleto, in quanto “classico”, veicola significati attraverso i secoli, a prescindere dalla prospettiva di visione.
Al contrario, è proprio la stortura del capolavoro a consentire l’emersione di significati inediti e invisibili, considerando il solo testo shakespeariano. Gli innumerevoli rifacimenti acquistano dunque importanza e dignità. Tra essi spicca per originalità e intelligenza la pellicola di Tom Stoppard, Rosencrantz e Guildenstern sono morti, una regia del 1990. Il film è una trasposizione cinematografica dell’omonimo spettacolo teatrale, un atto unico scritto nel 1964.
Shakespeare e due personaggi
Rosencrantz e Guildestern sono due personaggi marginali dell’Amleto di Shakespeare. Sono due servi che compaiono saltuariamente tra gli atti, scambiandosi poche battute. Nulla si conosce di loro: sono probabilmente semplici comparse volte ad arricchire la corte di Elsinore.
Eppure la loro importanza celata, che pur il drammaturgo inglese deve aver loro conferito, non sfugge ai posteri. Nel film, infatti, essi diventano protagonisti indiscussi, rivoluzionando la storia di Shakespeare. L’Amleto viene dunque rivisto completamente attraverso lo sguardo di due personaggi marginali, che prendono vita e corpo grazie alla forza immaginativa di un artista. L’opera sembra dimostrare quanto i dettagli dei grandi autori possano acquisire nuova vita grazie a delle rivisitazioni, costituendo un’opera autonoma ispirata a quella di partenza. Rosencrantz e Guildenstern sono morti rappresenta prima di tutto un gioco di prospettive, uno stravolgimento del punto di vista sulla tragedia più conosciuta della storia del teatro.
I due protagonisti, Rosencrantz e Guildenstern, sono dei clown e dei becchini, dei saltimbanchi e filosofi. Insomma, nel tempo di sviluppo della storia impersonano i molteplici (e forse infiniti) volti dell’umano. I due dialogano del nulla, ma in quel nulla è intuibile l’intero senso della vita. Le battute dei due personaggi si collocano infatti al limite dell’impossibile e dell’esasperazione. Parlano senza riuscire a comprendersi ma, nel frattempo, comunicano per simbiosi.
Il grottesco filosofeggiare dei due protagonisti ricorda allora Vladimiro ed Estragone, i viaggiatori protagonisti di Aspettando Godot. Stoppard introduce infatti nel film un forte accenno al teatro dell’assurdo. L’attesa dei protagonisti del dramma di Beckett ricorda la fatalità della tragedia in cui i due vengono catapultati. Il loro condire di ironia e sarcasmo tematiche universali (quali l’esistenza e la morte) non lasciano dubbi a riguardo. I protagonisti diventano dunque una coppia comica che, tuttavia, non produce risate, ma risolini amari e sarcastici.
Armonia di linguaggi
Il linguaggio tenero e grottesco dei protagonisti si mescola alla lingua di Shakespeare. Stoppard mescola armonicamente due registri stilistici e linguistici diversi. Sceglie di far parlare i personaggi principali dell’Amleto nella lingua del poeta, attenendosi a una traduzione del testo originale. Si crea così un contrasto tragicomico e grottesco, unito al clima di suspence dell’ambientazione. In questo modo, il regista sembra comunicare la superiorità intrinseca del testo di Shakespeare. Non vuole modificare le parole, ma conservare l’originale lingua magistrale del poeta. Non resta altro che amalgamare e rendere organici due testi lontani nei secoli. Un’operazione complessa, dal risultato eccellente.
L’opera è una tragicommedia poiché, conservando la tragicità del dramma di Amleto, riproduce un sottile strato di comicità che strappa addirittura qualche sorriso. È infatti stridente il contrasto tra la tragedia che si sta consumando a corte e le vicissitudini e disavventure che dominano la quotidianità dei personaggi.
Stoppard sceglie però di rappresentare con leggerezza la tragedia. Vengono tralasciati numerosi dettagli cruenti e la violenza è lasciata all’intuizione. Al contrario, un virtuosismo del regista immagina un finale inaspettato dalle forti connotazioni filosofiche. Eppure il dramma che si consuma nel finale non dovrebbe stupire lo spettatore. Esso è infatti intuibile dal titolo e anticipato durante il film. Stoppard non vuole impressionare il pubblico, bensì ricordare quanto tutto sia scritto e segnato e debba compiersi secondo le previsioni.
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