Nel trattato A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757), Edmund Burke teorizzava per la prima volta quello che definì come “a delightful horror”, ovvero “l’orrendo che affascina”. In questo modo contestualizzava il concetto estetico del sublime in contrapposizione al modello di bellezza classica. Il pensiero di Burke sul sublime è stato poi ripreso e ampliato da Kant e Hegel. Sui loro esempi letterari e filosofici, gli artisti romantici avrebbero ereditato molto, sviluppandolo e rappresentandolo nelle proprie opere.
Dai capolavori dei primi romantici, narratori del sublime in parole o colori, sono passati quasi due secoli. Tuttavia, qualcosa di quel “gusto per l’orrendo” o di fascinazione dello spaventoso è rimasto ancora ed è tutt’ora impregnato profondamente nel nostro pensiero e perfino nello stesso modo di stare al mondo. Ancora oggi infatti – come sanno bene poeti, musicisti e filosofi – le categorie estetiche del Romanticismo permeano in profondità il pensiero occidentale, consapevolmente o non. E tra queste anche quel gusto per il ruderismo che tanto affascinava gli artisti ottocenteschi.
La fascinazione dei luoghi abbandonati
Così si spiega quel senso di vertiginoso, ma irresistibile, brivido che ancora oggi avvertiamo contemplando ruderi e rovine. Quella febbrile sensazione dell’esplorare luoghi abbandonati, oppure scrutare edifici diroccati dall’erosione implacabile del tempo. E noi, tentiamo di ricostruire tutto questo con l’immaginazione.
Così si tratteggiano anche gli scatti di James Kerwin, fotografo britannico, originario di Norwich, che da circa sette anni pone al centro del suo linguaggio artistico composizioni fotografiche di edifici, strutture e architetture abbandonate. Queste vengono fotografate in diverse località del mondo, come nel caso del suo ultimo progetto Uninhabited (inabitato) che lo vede impegnato fino al 2024 tra gli scheletri edilizi immersi nelle dune della Namibia.
Le ricerche fotografiche di James Kerwin
Ma partiamo con ordine.
Come emerge dal suo sito web, la passione di James Kerwin per la fotografia ebbe origine soltanto dieci anni fa, il che sorprende data la qualità dei suoi scatti. Dopo essersi inizialmente dedicato all’attività di fotografo per eventi e matrimoni, Kerwin scoprì la fotografia paesaggistica, immortalando scenari dapprima della sua terra natia e poi del resto d’Europa. In questo modo consolidò un fortissimo legame tra l’attività di fotografo e quella di viaggiatore, che tutt’oggi è alla base della sua ricerca artistica. Del resto, è una prerogativa indubbia per tutti i fotografi che si occupano di fotografia paesaggistica e/o etnografica.
Pur restando il paesaggio – o forse, più nello specifico, gli scenari – e la scoperta di luoghi inediti solidi aspetti costitutivi della ricerca artistica di Kerwin, dal 2013 il fotografo pone al centro dei suoi scatti l’architettura. Sue predilette sono le strutture solitarie, abbandonate e diroccate, quelle che potremmo sintetizzare con il termine “ghost buildings”. Edifici fantasma, insomma, che il fotografo riproduce nelle sue fotografie catalogandone le forme distrutte con una perizia quasi archeologica.
Decadence
Risale al 2014 la prima serie fotografica dell’artista improntata su edifici abbandonati: Decadence. Protagonisti degli scatti sono vedute d’interno di architetture europee in decadenza, tra le quali primeggiano soprattutto ambienti, stanze e scalinate di residenze e ville italiane. Non sono però strutture per forza abbandonate, come dimostra il celebre palazzo di Sammezzano (Toscana), un gioiello di architettura eclettica riconducibile alla sua ristrutturazione ottocentesca. La sua peculiarità è indubbiamente costituita dall’impiego di soluzioni decorative di stampo orientale e arabeggiante, che affiorano nella bellissima Sala dei Pavoni.
Già in questi primi ritratti, che spaziano tra Italia, Belgio, Germania e UK, è possibile riconoscere l’impronta stilistica e la ricerca estetica di Kerwin. Questa si impernia sull’equilibrio compositivo e sul rendere la luce che filtra dalle aperture la vera protagonista delle composizioni fotografiche. Nelle fotografie, infatti, gli ambienti diroccati e solitari sembrano quasi ricomporsi e completarsi dalla luce che irrompe – a volte diffusa, altre in singole lame lucenti – all’interno degli spazi, quasi a volere conferire nuova vita a stanze un tempo percorse e vissute.
Domum Dei
Decadence è poi accompagnato da una seconda serie di fotografie che riprendono il medesimo tema: Neglected. Tuttavia, tra il 2016 e il 2017 l’interesse fotografico di James Kerwin si concentra su un altro specifico tipo di architetture, le chiese, raccolte nella collezione Domum Dei. Qui gli scenari immortalati riguardano solitarie vedute d’interno di navate di chiese italiane, francesi, ma anche inglesi, oppure ciò che resta di pilastri, colonne, perimetrali, volte ecc. di chiese un tempo integre, ma ora abbandonate a se stesse.
In questi scatti le aule di culto sono immortalate in composizioni rigorosamente simmetriche che, così facendo, suggeriscono e potenziano la dinamica assiale-longitudinale lungo la navata. Anche in queste fotografie l’equilibrio compositivo guida l’obiettivo di Kerwin che, mediante una sapiente calibrazione della luce, riesce a porre in risalto le membrature architettoniche degli interni fotografati. Ed è così che il nostro occhio viene invitato a percorrere quegli spazi, seguendo le linee prospettiche che si prolungano fino ai presbiteri finali. Di volta in volta cogliamo così colonne, capitelli, costoloni, fasci di pilastri e molto altro ancora.
La perduta liturgia della luce
La sacralità degli spazi è come se fosse suggerita dalla luminosità che, ancora una volta, esalta i colori delle volte e delle pareti dipinte. Gli storici della filosofia la chiamerebbero una liturgia della luce, già teorizzata dai neoplatonici e ripresa dall’abate Suger (XII sex.) nei suoi scritti sull’architettura gotica. Ed è un po’ come se Kerwin cercasse di conferire una nuova religiosità alle aule di culto fotografate. Quella stessa che, a detta del fotografo, i suoi connazionali inglesi sembrano aver perduto. Cos’ scrive Kerwin sul suo sito:
I britannici hanno perso fede nella religione molto più rapidamente di qualsiasi altra area d’Europa. I sondaggi più recenti riportano che la Gran Bretagna è tra i paesi meno religiosi del pianeta, con solo il 30% della popolazione britannica che si definisce ‘religiosa’
A Paradise Lost e Uninhabited
Tra il 2017 e il 2020, complice anche l’aumento della notorietà, James Kerwin amplia la portata dei suoi viaggi e si lancia alla scoperta di nuovi luoghi con splendide architetture abbandonate da fotografare. Ora non sono più soltanto in Europa, ma sempre più verso Oriente, dove l’artista visita aree tailandesi, birmane, ma soprattutto focalizza la sua ricerca fotografica sul Medio-Oriente e sul Continente africano.
Proprio in queste due aree geografiche si collocano gli ultimi progetti di Kerwin, il primo completato tra il 2019 e il 2020, l’altro ancora in corso di realizzazione e che si protrarrà fino al 2024 – o almeno questa è la deadline- a causa dell’attuale situazione pandemica. In particolare, in Medio-Oriente l’occhio del fotografo è rimasto affascinato da Beirut, capitale del Libano, e dagli straordinari resti delle sue architetture, catalogate nella serie Paradise Lost.
E gli scenari che le immagini ci mostrano sembrano davvero riprodurre un Paradiso perduto, espressione che ben si addice alla città di Beirut. Questa infatti, nel Secondo Dopoguerra, visse un periodo di grande prosperità, arricchendosi di architetture improntate sulle forme e gli stili di quelle europee, tanto da conquistare il soprannome di “Parigi del Medio Oriente”. Oggi invece la stragrande maggioranza di quegli edifici si presenta frammentario a causa delle distruzioni provocate dai conflitti civili ancora in corso.
L’ipnosi di ambientazioni desertiche inabitate
L’ultimo progetto di James Kerwin, invece, reca il titolo Uninhabited e vede il fotografo impegnato tra le dune del deserto dalla Namibia, in Africa meridionale. Già dai primissimi scatti però, di cui la maggior parte sono stati realizzati lo scorso anno, possiamo coglierne la portata evocativa, surreale e a tratti quasi magica. Non a caso, il titolo del più celebre di questi scatti è The Magician.
Le prime fotografie della serie riproducono infatti scenari con abitazioni namibiane letteralmente deserte. Di queste vediamo corridoi e soprattutto porte invase dalle dune del deserto, quasi a diventare un tutt’uno organico. Così, per il semplice effetto della natura che invade gli ambienti umani, il carattere desertico dell’inabitazione è sottolineato dalla sabbia. Lei seppellisce le pareti, gli armadi e gli stipiti delle porte, fino aii corridoi desertici, che sembrano procedere all’infinito, in un’atmosfera ipnotica e fortemente suggestiva.
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