Un enorme gorilla, un’attraente donna dai capelli biondi, una leggendaria scalata all’Empire State Building. Tutti elementi iconici di una storia nota a molti, cinefili e non; una storia di mostri, di mondi differenti, di lande incontaminate e ruvido asfalto; la storia di King Kong, ottava meraviglia del mondo, narrata da innumerevoli cineasta e ripresa nel 2005 dal regista Peter Jackson.
Un’opera in 3 atti
Peter Jackson dirige un’opera di spessore, della considerevole durata di oltre 180 minuti, riuscendo tuttavia a ben equilibrare la materia e le emozioni.
A un’introduzione ben calibrata, in grado di inserire lo spettatore nel clima di mistero che avvolge la pellicola, seguono tre atti ben definiti, divisi da una differente locazione e da una struttura a livelli capace di rivoluzionare la quest di ogni sezione narrativa.
Conosciuti i protagonisti della storia, lo spettatore si immerge insieme a loro nel primo atto del racconto, avventurandosi in mare aperto alla ricerca di Skull Island e degli infausti presagi che gravano su quel luogo dimenticato da Dio. Per impreziosire una trama ancora in fase di sviluppo, Peter Jackson infonde alla materia una duplice prospettiva di interpretazione, alternando momenti di evidente serenità ad attimi più tenebrosi.
La componente meta-cinematografica su cui il film fa leva sembra infatti richiamare, in qualche frangente, le atmosfere del Titanic di Cameron e il suo giovane amore nato tra le onde dell’oceano. L’ambientazione marinaresca, i turbamenti della ciurma e il generale clima di profonda inquietudine spingono invece in tutt’altra direzione, rievocando gli antichi viaggi per mare e le maledizioni piratesche d’altri tempi.
Teatro d’occasione per il secondo atto è la famigerata Skull Island; agognata meta e luogo di perdizione; desiderio recondito e divoratore di speranze. Il regista ci introduce a un mondo di mostri, di creature inimmaginabili e belve feroci, dove il tempo sembra essersi fermato. In un chiaro omaggio al Jurassic Park di Spielberg, Peter Jackson lascia che lo spettatore vaghi attraverso la temibile giungla e fugga da pericolose bestie preistoriche, alla disperata ricerca di una via d’uscita dall’incubo. Un mondo altro di Crichtoniana memoria, dove la natura è cacciatrice famelica di un’umanità indesiderata.
È New York a chiudere i giochi, a riportarci nella realtà che ci compete, una realtà di alti palazzi, grandi spettacoli e sfruttamento. La realtà umana, quella dello show, del vile denaro. Una dimensione indagata in tutta la sua povertà valoriale, patria della bestia famelica per eccellenza, di quell’uomo che tutto distrugge e tutto divora.
Il fascino del mostro
Peter Jackson non è il solo ad aver raccontato la storia di King Kong, una delle icone cinematografiche più famose di sempre, ispiratrice di numerose pellicole e rielaborazioni. Pensiamo al primo film del 1933 di Merian C. Cooper, a Il trionfo di King Kong, girato nel ’62 da Ishiro Honda o alla duologia di John Guillermin datata 1976 e 1986. Così come non è un caso che il gigantesco gorilla non sia l’unico “mostro” che il mondo del cinema ha saputo regalarci. Il pensiero va naturalmente alla lunghissima serie di pellicole dedicate a Godzilla; in particolare, al cosiddetto MonsterVerse, ideato negli ultimi anni dalla Legendary Pictures con l’intento di creare una breve saga capace di intersecare le leggende dei due mostri e pronta a rilasciare l’attesissimo Godzilla vs. Kong, previsto per il mese di marzo di quest’anno.
C’è rimasto ancora un po’ di mistero in questo mondo, e possiamo goderne tutti al prezzo di un biglietto d’ingresso.
Una tradizione quasi secolare che affonda le sue radici nel fascino del mostro; in quella fatale attrazione che da sempre ci spinge al sublime romantico, a quel senso di sgomento che solo la misteriosa immensità di ciò che è sconosciuto è in grado di regalarci.
La bella e la bestia in un’eco ambientalista
Quella di Peter Jackson è un’opera riuscita e avvincente, che molto deve a una regia ispirata ed esperta oltre che a una scrittura bilanciata e appassionante. Un ulteriore punto di forza è inoltre individuabile nella ricchezza rievocativa e sociale della pellicola. L’amore impossibile tra l’immenso Kong e la bella Ann ripropone una versione più triste, malinconica e infine rovesciata del classico Disney La bella e la bestia, come evocato con forza dalla battuta a chiusura del film. Un’eco simil-disneyana che sembra voler trasmettere allo spettatore gli stessi valori ambientalisti di Tarzan, mettendo in scena l’avidità dell’animale uomo e la sua perenne idolatria al denaro. Richiami e messaggi che ben si mescolano alle avventure che sostengono la trama riuscendo persino a confluire in attimi di commovente riflessione. Attimi in cui la bellezza di un tramonto riesce a prendere il sopravvento, per tingere di un rosso aranciato il cielo di ogni creatura.
Non sono stati gli aeroplani, è la bella che ha ucciso la bestia.
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