L’ultima polemica riguardante un caso di appropriazione culturale si è scatenata riguardo a una foto di Rihanna. In un post di Instagram che intendeva pubblicizzare la propria linea di intimo Savage X Fenty, infatti, la popstar ha indossato una lunga collanina rappresentante un’immagine della divinità indù Ganesh. Tuttavia, se è lecito avanzare una lunga serie di perplessità e obiezioni riguardo l’utilizzo di un’immagine sacra per la sponsorizzazione di una linea di intimo, si tratta davvero di un episodio di appropriazione culturale? È necessario fare un po’ di chiarezza.
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Appropriazione culturale: una definizione chiara
L’utilizzo dell’espressione “appropriazione culturale” è sempre più diffuso nella cultura di massa. Per quanto venga declinato secondo diverse sfumature in contesti diversi, è bene ricordarne alcune caratteristiche fondamentali che lo contraddistinguono. L’appropriazione culturale è un fenomeno che vede infatti una cultura dominante impossessarsi in maniera impropria di un elemento tradizionale di un gruppo più debole, privandolo del proprio significato originario, per trarne un vantaggio economico. L’implicito rapporto di violenza che ne fa da sfondo lo rende un retaggio dell’epoca coloniale, instaurandone nuovamente i rapporti di dominio e di controllo. Sono state sottolineate le somiglianze tra questo concetto e quello di terra nullius, in base al quale gli esploratori occidentali che “scoprivano” nuovi mondi (in realtà già popolati da gruppi indigeni) si impossessavano dei nuovi territori.
I rischi per le popolazioni indigene: il caso di Isabel Marant
I danni che seguono l’appropriazione culturale possono essere numerosi e di varia natura per il gruppo da cui si è sottratto l’elemento tradizionale, in primo luogo economici. Nel 2015 la stilista francese Isabel Marant ha realizzato una linea di abbigliamento femminile copiando il ricamo tradizionale huipil della popolazione messicana Mixe. Tale ricamo è parte della cultura Mixe da più di seicento anni.
Mentre un abito tradizionale huipil può arrivare a costare all’incirca trecento pesos messicani, Marant ha venduto i propri capi a 365 dollari, l’equivalente di all’incirca 4500 pesos. La derivazione originale degli abiti non è mai stata indicata fino a quando la comunità Mixe non ha mosso rivendicazioni, invitando anche Marant nel proprio villaggio per poterle spiegare il significato e i metodi di realizzazione di tale ricamo.
Per di più, se una terza parte registra come proprio marchio l’oggetto culturale tradizionale di un’altra cultura, quest’ultima non potrà più utilizzare quell’oggetto. È il rischio che ha corso la popolazione Mixe quando un’altra popolare casa di moda, Antik Batik, ha tentato di dimostrare che Isabel Marant avesse copiato da loro le bluse in stile huipil. Al termine della controversia la Corte francese ha tuttavia stabilito che né Isabel Marant né Antik Batik avrebbero più potuto utilizzare il ricamo tradizionale Mixe, in quanto proprietà della cultura messicana.
Nel 2016, con un atto valido più a livello simbolico che legislativo, il congresso della provincia di Oaxaca, in collaborazione con l’UNESCO, ha definito i ricami, il design e la lingua Mixe un intoccabile patrimonio culturale.
Nel momento in cui un prodotto viene commercializzato, vi è il rischio concreto che l’utenza internazionale preferisca acquistare capi che riportano la firma di un brand famoso, piuttosto che l’indumento originario tradizionale. Questo causa grossi danni economici alle popolazioni native i cui capi sono stati imitati. L’esempio più sconcertante riguarda la popolazione Maasai dell’Africa orientale.
Diffusa sugli altipiani tra Kenya e Tanzania, la popolazione Maasai rappresenta forse l’epitome dell’immaginario occidentale riguardo un’Africa tribale, misteriosa e tradizionale. La quasi totalità della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Questo non ha tuttavia impedito a più di mille marchi in tutto il mondo (tra i quali Ralph Lauren, Calvin Klein, Louis Vuitton e Diane von Furstenberg) di copiare le trame dei tessuti tradizionali masai (lo shuka) e realizzarne capi d’abbigliamento e non solo. È stato stimato che il guadagno maturato con la vendita di tali tessuti sia ammontato in media a più di cento milioni di dollari all’anno per ciascun brand.
Le conseguenze sociali
Non vanno sottovalutate nemmeno le conseguenze di tipo culturale e sociale. I prodotti realizzati con tecnologie occidentali possono sembrare impeccabili nel loro aspetto finale rispetto alle manifatture native, motivo per cui possono risultare preferibili all’utente finale. Difficilmente il divario tra le tecnologie può essere colmato, perlomeno in tempi brevi, a causa delle difficoltà delle culture indigene e native di stare al passo con il processo di industrializzazione e globalizzazione.
Gli oggetti culturali tradizionali sono espressione, tangibile o meno, di una cultura. Nonostante tendano ad essere considerati simboli di un antico passato tradizionale, essi sono più che mai attuali. Sono l’espressione del potere di autodeterminazione e dell’autonomia di un gruppo, in molti casi strumenti utili anche a definire le relazioni con il resto del mondo. Negoziano e riaffermano l’identità culturale e sociale in un contesto post-coloniale, nel quale la presenza e il ruolo di questi gruppi hanno dovuto essere riscritti e riconquistati.
L’appropriazione e la decontestualizzazione degli oggetti culturali tradizionali da parte delle culture occidentali possono privare gli oggetti del proprio significato intrinseco, spogliandoli di sacralità e potere. È inoltre spesso accaduto che questi siano stati riutilizzati nell’ambito di vere e proprie campagne razziste e offensive nei confronti delle popolazioni native.
Tra razzismo e spregio: i casi di Nike e DSquared2
Nel 2015 il marchio DSquared2 ha realizzato una collezione liberamente ispirata all’abbigliamento dei gruppi indiani nativi canadesi dal nome Dsquaw. Il termine squaw, però, mutuato dalla lingua dell’etnia Algonquin, è un modo estremamente dispregiativo di riferirsi alle donne. Alcuni slogan della campagna facevano poi riferimento alla denominazione “eschimese”, utilizzata dai colonizzatori per riferirsi alle popolazioni Inuit e per questo caduta in disuso da molto tempo. La proprietaria del magazine «Urban Native Girl», Lisa Charleyboy, ha soprannominato la collezione “la glamourizzazione della colonizzazione”.
Canadians @Dsquared2 cause outrage with #Dsquaw line http://t.co/jKl0FxxtLl pic.twitter.com/T3qaGmURRQ
— National Post (@nationalpost) March 4, 2015
Un altro esempio riguarda la Nike, che nel 2013 ha dovuto ritirare dal mercato la linea di abbigliamento sportivo per donna Pro Tattoo Tech. Le stampe rappresentante imitavano infatti i pattern pe’a dei tatuaggi tipici dell’isola di Samoa. Tali tatuaggi rivestono un’importanza centrale all’interno della cultura samoana, poiché simboleggiano il passaggio dei giovani all’età adulta e la conseguente responsabilità per il benessere della propria cerchia famigliare. L’episodio ha costituito una forte offesa per i samoani, soprattutto dal momento che i disegni erano riprodotti su abiti femminili, mentre i pe’a sono propri esclusivamente della popolazione maschile.
La proprietà intellettuale
Gli oggetti tradizionali culturali, come detto, concretizzano i tratti peculiari di una determinata cultura. Possono essere modi di vestire e di acconciare i capelli, ma anche nomi, storie, danze, musiche, artefatti; qualunque simbolo e segno il cui significante sia un preciso contesto culturale. Spesso sono creazione di sconosciuti, ma in quanto generati dalla mente umana sono inequivocabilmente identificabili come proprietà intellettuale. Nonostante ciò, per le popolazioni indigene risulta molto difficile ricorrere agli strumenti delle stesse società occidentali per difendersi dai furti di proprietà intellettuale (marchi registrati, brevetti, diritto d’autore e così via).
Il diritto internazionale tende a considerare le espressioni culturali tradizionali come di pubblico dominio e, anche quando previste, le forme di tutela sono comunque insufficienti e inadatte. Nemmeno strumenti come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici costituiscono un’adeguata forma di protezione legale. Ritroviamo anche in questi meccanismi la reiterazione di nuove forme di violenza: è ancora una volta la cultura dominante che stabilisce i termini entro i quali ci si può difendere.
Il fascino dell’etnicità
L’evocazione di etnicità ed esoticità nella moda e nel design richiama nei consumatori valori desiderabili quali l’autenticità, l’unicità e il rispetto di criteri di produzione etici e rispettosi dell’ambiente. Se ne trova traccia ovunque: dall’ispirazione nomade e le influenze orientali della collezione Etro 2021 ai motivi esotici di ispirazione per le nuove linee di Roberto Cavalli.
I principi dell’imitazione e del prendere in prestito, inoltre, sono estremamente diffusi nell’industria della moda, al punto da costituirne quasi una caratteristica fondante. I marchi di fast-fashion plagiano continuamente le collezioni delle alte passerelle, fornendo ai propri consumatori vere e proprie copie a minor costo. In questo contesto, l’appropriazione culturale è solamente uno degli alternativi aspetti in cui la moda “prende in prestito” continuamente.
Influenza e appropriazione
L’ispirazione e la presa in prestito, tuttavia, possono costituire delle straordinarie forme di arricchimento per entrambe le parti, se avvengono nei termini di una collaborazione rispettosa. I continui scambi tra culture hanno permesso spesso grandi passi in avanti nella qualità della vita dei soggetti, come, per esempio, è avvenuto con l’emancipazione delle donne. L’arricchimento economico di tutte le parti coinvolte è un altro grande punto a favore.
Influenza e appropriazione sono due concetti ben distinti, pur essendo il confine tra i due sfumato. Non si parla di appropriazione culturale nel momento in cui vi è un atto volontario di autorizzazione o cessione di diritti. Comprendere l’importanza del significato degli oggetti culturali tradizionali, evitando di svilirlo o collocarlo nel mero ambito della proprietà intellettuale, costituisce un buon punto di partenza. In questo modo si evita di arrecare un danno economico e morale.
FONTI
Vézina, B. (2019). Curbing Cultural Appropriation in the Fashion Industry. CIGI Paper No. 213