Quando il primo episodio di No Man’s Land inizia, siamo nel 2014 e Antoine (Félix Moati) non se la sta passando molto bene. Seduto sul retro di un pick-up nel mezzo del deserto siriano, tutto impolverato, in mutande, coi polsi legati e gli occhi bendati, deve spiegare a un gruppo di miliziane curde di non essere un militante dell’ISIS. Il piccolo problema però è che nessuno parla la sua lingua. Perciò il tentativo fallisce. Botta in testa. Buio.
Da quel buio No Man’s Land torna indietro di qualche ora, a Parigi. Antoine infatti è un comunissimo uomo occidentale di un’età intermedia tra i 30 e i 40 anni, la cui vita si divide tra il lavoro di ingegnere e i tentativi di avere un figlio con la compagna. A catapultarlo in Siria – e non è una metafora – sono un notiziario come tanti e parecchio coraggio, o forse incoscienza. Perché da un paio di fotogrammi di guerra, Antoine si convince che sua sorella, un’archeologa data per morta in un attentato in Egitto, possa essere viva. Così, dopo aver incassato qualche giustificabile accusa di follia, raduna il minimo indispensabile e si imbarca sul primo aereo disponibile.
Da qui gli episodi della serie (che sono 8 e si possono vedere su Starzplay) seguono Antoine ruzzolare e rimbalzare da un angolo all’altro della guerra civile siriana. Venduto ai terroristi prima, prigioniero dei curdi già pochi minuti dopo, Antoine finisce pian piano coinvolto nella causa della YPJ (cioè l’Unità di Protezione delle Donne), una milizia armata curda formata da sole donne che combatte contro lo Stato Islamico. Ma soprattutto, Antoine entra in contatto con un conflitto che coinvolge il mondo intero più di quanto si percepisca dalla tv e dai giornali. Ci sono uomini e donne venuti da altri paesi per combattere al fianco dei curdi, e ci sono anche i foreign fighters arrivati per arruolarsi nell’ISIS.
Per sembrare il più accurata possibile, No Man’s Land ha messo in piedi una squadra produttiva di dimensioni altrettanto globali. Si tratta di una co-produzione franco-belga-israeliana che ha raccolto, tra cast e troupe, professionisti di 13 nazionalità diverse. Nella sceneggiatura si parlano 6 lingue – francese, inglese, arabo, curdo, turco e parsi – oltre ad alcuni dialetti arabi tradotti con un lavoro molto minuzioso. A crearla e scriverla sono stati i quattro ideatori di alcune delle serie tv israeliane di maggior successo degli ultimi anni: Maria Feldman (Fauda), Amit Cohen (False Flag), Eitan Mansuri (Quando gli eroi volano) e Ron Lesham (Euphoria, da cui poi è stata tratta la versione americana).
Eppure, No Man’s Land ha finora ricevuto riscontri non molto entusiasti. Il suo problema, secondo chi l’ha vista e recensita, sarebbe proprio la ricostruzione del conflitto siriano. I riferimenti geografici sono un po’ troppo approssimativi, hanno detto le critiche. E le storie dei diversi personaggi sarebbero fin troppo semplificate: i tre amici britannici che si sono uniti all’ISIS dopo un’infanzia vessata dal bullismo; la combattente francese entrata nella YPJ per incanalare il dolore per l’uccisione del fidanzato, un iraniano a cui fu negato l’asilo politico; l’infiltrato che si è guadagnato la fiducia dello Stato Islamico, ma in realtà passa informazioni all’esercito americano.
Tuttavia, la pecca maggiore contestata alla serie è di aver svilito la realtà rara e preziosa delle donne che combattono contro l’ISIS. Questo perché No Man’s Land non racconta la storia dal punto di vista di Sarya (Souheila Yacoub), una giovane miliziana cresciuta a Parigi e tornata nel Kurdistan da adolescente, dopo la morte della madre. Benché si tratti del personaggio effettivamente più insolito, complesso e interessante, si preferisce utilizzare il punto di vista di Antoine, che dal conflitto rimane coinvolto più per necessità di trovare la sorella, che per ideologia.
Il punto sta proprio qui, però. Antoine, che in Siria ci arriva incamiciato e non sa davvero cosa significhi vivere in guerra, è esattamente come noi. Vederlo chiedere dove sia la sorella a persone che hanno priorità ben più dolorose e atroci non è superficialità narrativa, ma uno specchio per il nostro ingenuo egoismo.
Le serie tv di finzione non hanno alcun dovere informativo: per quello ci sono i documentari. Il loro compito, piuttosto, è trovare l’espediente giusto che connetta lo spettatore alle storie che raccontano; poi, da qui, alimentare magari la curiosità necessaria per spingerlo ad approfondire altrove. Stateless ci aveva provato qualche mese fa con la storia di una cittadina australiana detenuta per sbaglio in un centro per migranti, e aveva funzionato.
Se No Man’s Land fosse stata sviluppata dal punto di vista di Sarya o di qualsiasi altro personaggio interno al conflitto, avremmo continuato a pensare che la guerra in Siria fosse preoccupante ma lontana, proprio come la percepiamo ormai da 9 anni.
Invece con il normalissimo Antoine ci si identifica, ci si immagina al suo posto nei villaggi sabbiosi, a schivare raffiche terrificanti e spettacolari di missili. Almeno per qualche ora, si ha l’insolita impressione che questa guerra riguardi anche un po’ noi.