Il Pakistan apre la strada a riforme carcerarie più ampie

Il 10 febbraio il Pakistan ha posto fine alla pena di morte per i detenuti che convivono con disturbi di salute mentale, liberando dalla condanna a morte due prigionieri con diagnosi di schizofrenia. La sentenza della Corte Suprema è una decisione storica. Gli attivisti per i diritti umani hanno accolto la decisione come un tentativo di apertura verso riforme carcerarie più eque e come punto di partenza per tutelare i diritti dei più vulnerabili agli abusi del sistema giudiziario.

Sarà ora un comitato medico a determinare quali prigionieri “hanno problemi di salute mentale così gravi che mandarli al patibolo sarebbe contrario al principio del castigo”, come chiarito da Usama Malik, avvocato per i diritti umani. Condannare a morte un detenuto che, a causa di una malattia mentale, non comprende la natura della punizione, non può far altro che andare contro i fini della giustizia. La sentenza sposta così l’attenzione all’assistenza riabilitativa, richiedendo anche maggiore attenzione al tema delle infrastrutture necessarie per migliorare l’assistenza sanitaria mentale nelle carceri.

Pakistan: giustizie e ingiustizie

La strada verso una diversa forma di giustizia e sensibilità è stata aperta nel 2015 dagli avvocati del Justice Project Pakistan, quando hanno iniziato a indagare sul caso di Kanizan Bibi. Quest’ultima aveva 16 anni nel 1991, quando è stata condannata con l’accusa di aver ucciso la moglie e i figli del suo datore di lavoro, Khan Muhammad, un ricco proprietario terriero, sebbene non ci fossero prove che la collocassero sulla scena del crimine. Nel 2000 le è stata diagnosticata la schizofrenia, e dalla prigione centrale di Lahore è stata trasferita al Punjab Institute of Mental Health (PIMH), dove è tornata nuovamente nel 2018 a causa del deterioramento della sua salute mentale.

Secondo le dichiarazioni del Cornell Center on the Death Penalty Worldwide, Kanizan è stata ingiustamente condannata ed è stata torturata durante la custodia della polizia per quindici giorni prima della sua condanna a morte. Diverse testimonianze di parenti e persone che si prendevano cura di Kanizan affermano che non le hanno mai sentito pronunciare una sola parola da quando è stata trasferita al Punjab Institute of Mental Health.

Gli imputati mentalmente malati si trovano spesso e ripetutamente bloccati nel sistema di giustizia penale del Pakistan. Inoltre, la mancanza di cure e di formazione del personale fa sì che molte persone non vengano mai a sapere della propria malattia. La prassi più comune, per molti imputati, è quella di ricevere il primo contatto con un professionista della salute mentale solo in prigione, quando hanno già ricevuto una condanna. La condanna a morte di tali persone sarebbe dunque una violazione della dignità umana, andando anche contro diversi obblighi internazionali.

In bilico

La pena di Kanizan è stata commutata in ergastolo dopo 32 anni trascorsi in attesa di esecuzione, nonostante la sospensione temporanea della pena capitale dal 2008 al 2014, avvenuta dopo le pressioni di gruppi internazionali per i diritti umani. Ma nel 2014, in seguito a un attacco talebano a una scuola di Peshawar, sono state introdotte leggi più severe e la pena è stata reintrodotta.

Il secondo prigioniero che ha visto la commutazione della pena dopo aver trascorso 18 anni nel braccio della morte è Imdad Ali. Riconosciuto colpevole dell’omicidio di un insegnante, studioso di religione, nel 2001, ha ricevuto una diagnosi di schizofrenia nel 2008. La Corte Suprema del Pakistan ha fermato l’esecuzione di Ali solo pochi giorni prima della prevista impiccagione, permettendo successivamente il trasferimento in una struttura per la tutela della salute mentale gestita dal governo.

Anche l’esenzione ha delle condizioni

Ma la Corte Suprema non ha concesso la commutazione della pena a tutti i prigionieri che soffrono di problemi di salute mentale. L’ordinanza della Corte Suprema afferma che “non tutte le malattie mentali possono automaticamente beneficiare di un’esenzione dall’esecuzione della condanna a morte”. Questa esenzione, infatti, potrà essere applicabile, a partire dalla sentenza di quest’anno, soltanto nel caso in cui una commissione medica, dopo un esame e una valutazione approfondita, certifichi che il detenuto condannato non possieda più le funzioni mentali per comprendere la logica e le ragioni alla base della sentenza di morte che viene inflitta. Solo quei condannati vedranno cambiata la loro sorte.

La sentenza del 2021, dunque, impone ora alle autorità provinciali di costituire commissioni di medici professionisti al fine di accertare la salute mentale dei detenuti che presentano sintomi di malattie o disturbi mentali. Il fine ultimo è l’abolizione della pena di morte stessa, e il caso di Kanizan Bibi crea un precedente per la protezione dei diritti di coloro che soffrono di disturbi mentali, ponendo fine all’esecuzione di tutti quei prigionieri con condizioni simili, molti dei quali devono ancora vedere diagnosticate le proprie malattie.


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