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Come la lingua inglese sta perdendo il suo monopolio in musica

Per decenni siamo stati abituati all’idea che si potesse considerare musica “vera” solo quella cantata in lingua inglese, come fosse l’unico idioma capace di intrattenere e trascrivere i propri pensieri in musica. Negli ultimi anni, però, sono emersi sempre più spesso artisti che riescono a debuttare a livello mondiale pur avendo i testi in lingue diverse dall’inglese. Se già fino a dieci anni fa sembrava impossibile un’impresa del genere – a meno che non si trattasse di Shakira in persona – adesso affermarsi in questo contesto non è impensabile, soprattutto grazie ai social. Scopriamo insieme gli artisti che sono più riusciti a remare contro il monopolio (ormai decadente) della lingua inglese nella musica.

E se una volta c’erano i tormentoni…

Se prendiamo in considerazione i primi anni Duemila, fino ad arrivare a oggi, ci rendiamo conto che non sono pochi gli artisti che hanno fatto la storia della musica mondiale pur non cantando in inglese, dunque opponendosi al monopolio di questa lingua. Ricky Martin, Shakira, Enrique Iglesias sono solo alcune delle tante stelle che hanno fatto sognare negli anni Novanta e Duemila, insieme ad alcune hit che saranno probabilmente ascoltate per sempre. Come dimenticare, per esempio, brani iconici come Bamboleo dei Gipsy Kings, Macarena di Los Del Rio o Dragostea Din Tei degli O-Zone? 

Fatto sta, però, che i brani citati che contrastano il monopolio dell’inglese sono tutti semplici tormentoni, che portano i loro creatori a diventare meri one hit wonder (curiosi di sapere cosa significa? Cliccate qui). Non c’è nulla di male a voler vivere di rendita e royalties, ma dobbiamo comunque considerare il lato negativo della questione. Solitamente, chi desidera avviare una carriera da cantante non vuole essere conosciuto per una sola canzone, a prescindere dal compenso che porta. Certo, i soldi fanno sempre comodo e nessuno lo può negare, ma vale la pena vedersi sminuire il proprio lavoro per questo

Fortunatamente, gli artisti di lingua spagnola (e non solo) stanno diventando sempre più conosciuti a livello mondiale, e non per i tormentoni (o almeno nella maggior parte dei casi). Basti vedere l’emergere prepotente di cantanti come ROSALÍA, J Balvin o Bad Bunny, per quanto riguarda il genere del reggaeton. Ancora più sorprendente è l’ascesa della diva experimental ARCA, attuale regina dell’elettronica sperimentale (e non è un caso che il suo album KiCk i sia stato candidato ai Grammy di quest’anno). Tutti artisti che, anche grazie all’utilizzo dei social, hanno vissuto un successo mondiale sempre più grande, superando il semplice concetto di one hit wonder e le barriere linguistiche.

…adesso ci sono i Rammstein

Altro genere di grande successo che supera ogni confine (specialmente musicale) è il metal, e i Rammstein – band industrial metal, nata a Berlino nel 1993 – lo sanno benissimo. I testi del gruppo, scritti dal cantante Till Lindermann, sono scritti interamente in tedesco. E, ovviamente, come non unire a una lingua così forte temi che lo sono altrettanto?

Basta partire dalla storia dietro il nome stesso della band per capire di chi stiamo parlando. La data del 28 agosto 1988 è ricordata come una vera e propria tragedia nella storia europea; questo perché quel giorno, nella base aerea di Ramstein (in Germania) ci fu un grave incidente aereo che portò a quasi 70 morti. Il gruppo ha quindi deciso di riprendere il nome della base aggiungendoci una m, come a suggerire un’analogia con il verbo rammen (urtare). Già da qui si capisce che Rammstein amano provocare e parlare di ogni tipo di tematica controversa. Trattano di violenza, attrazione sessuale e morte, il tutto prendendo liberamente ispirazione da fatti accaduti realmente (come un episodio di cannibalismo che ha coinvolto il criminale tedesco Armin Meiwes) o dalla letteratura tedesca.

Non è un caso che, sia per lo stile, sia per come si presenta il gruppo, i Rammstein siano stati accusati di essere il male in persona. Sono infatti stati tacciati di aver ispirato il massacro alla Columbine High School, di essere filo-nazisti, persino di aver ispirato l’attentato alle Torri Gemelle. Ovviamente, la band ha più volte espresso la volontà di dissociarsi da tali accuse, in quanto non ha mai cercato di inculcare valori di questo tipo. Nonostante tutto, però, è innegabile la loro influenza musicale, nonché il loro valore culturale; da disastri aerei alle fiabe dei fratelli Grimm, i Rammstein non hanno potuto non guadagnarsi il trono di band metal tedesca più influente e conosciuta di sempre, soprattutto a livello mondiale.

Il caso di Stromae

Ancora più conosciuto, agli antipodi del monopolio della lingua inglese, è il caso di Stromae, nome d’arte di Paul Van Haver. Inutile negarlo, il 2013 è stato l’anno d’oro dell’artista belga. Tra brani iconici come Papaoutai e tous les mêmes, il suo ultimo album racine carrée è stato uno dei dischi più acclamati dello scorso decennio. La carriera musicale di Van Haver era già in salita dopo il primo album Cheese (e Alors on danse, singolo di punta); è però con racine carrée che arriva davvero il suo momento di gloria, insieme a innumerevoli ascolti da tutto il mondo. 

Non è un caso che tuttora Stromae sia un importante punto di riferimento per la cultura francese: va oltre ogni possibile cliché, è un artista sofisticato ma diretto. Racconta scenari di vita quotidiana in chiave pop ma con una costante autenticità (anche nella lingua che usa, appunto) spiazzante. Basti vedere Papaoutai: già dal titolo (crasi dell’espressione “Papa où t’es”, traducibile con “Dove sei, papà?”) capiamo di trovarci davanti a uno scenario doloroso per il cantante. È il documentario di un ragazzo costretto a crescere senza un padre, delle sue paure riguardo il momento in cui diventerà padre – e se dovesse morire anche lui, abbandonando i propri figli? Sarà odiato o amato da loro? 

Qui l’utilizzo della lingua francese, unito a quello di una base fortemente pop, dà origine a una riflessione un po’ amara riguardo la canzone: Stromae piange un padre morto ingiustamente, senza un reale motivo. Infatti, nel 1994 cade vittima del genocidio in Ruanda, una delle tragedie più grandi della storia dell’umanità. Eppure, il dolore nelle parole di Van Haver sembra quasi passare in secondo piano, sotto quella musicalità così coinvolgente. In breve, Papaoutai è un pezzo che traduce in musica ciò che Andy Warhol esprimeva in arte, il confine ambiguo tra realtà e finzione.

“Voi uomini siete tutti uguali”

Uno dei singoli più acclamati di Stromae è anche tous les mêmes (“tutti uguali”), canzone narrata dal punto di vista di una donna in una relazione. È un misto di cliché e situazioni fin troppo comuni in una relazione – litigi continui, quasi programmati, gelosie e attaccamenti morbosi ai propri genitori. Insomma, Paul sta cercando di mostrare quel lato imbarazzante di una relazione che difficilmente viene rappresentato.

Non hai idea di quello che stai perdendo
Non troverai mai nessuno buono quanto me
Cosa? Vuoi rompere adesso?
Hai frainteso tutto,
L’ho detto solo per avere una reazione!
E tu ci stavi davvero pensando!

È un quadretto che diventa quasi ridicolo, come quei momenti in cui si dice di voler chiudere un rapporto ma non si è davvero intenzionati a farlo. Eppure, vedere il complesso di queste piccole situazioni quotidiane fa assumere a tutto ciò un sapore agrodolce, che ci porta a un’unica domanda: vale davvero la pena di creare certe sceneggiate, solo per la voglia di dare movimento a una stancante routine? Stromae una risposta non la dà, ma una cosa è certa: i suoi brani spiegano fin troppo bene il concetto che lui vuole trasmettere, superando ogni tipo di barriera linguistica.

Eccellenze islandesi

Parliamo poi di colossi islandesi, di nomi sulla bocca di tutti che diffondono una delle lingue nordiche più complicate ma affascinanti. Primi fra tutti gli Hatari, trio autodefinitosi “un complesso artistico techno BDSM contro il capitalismo”. Si schierano inoltre apertamente pro i diritti LGBT+, per poi criticare aspramente il populismo dilagante in Europa.

Se non avete la minima idea di chi stiamo parlando, provate a rivedervi l’esibizione dell’Islanda all’Eurovision 2019. Con il brano Hatrið mun sigra (“L’odio prevarrà”), infatti, gli Hatari sono riusciti a conquistare i cuori del pubblico, aggiudicandosi il decimo posto dell’edizione. C’è chi, addirittura, li avrebbe definiti “i nuovi Rammstein”.

Non è solo la loro estetica a colpire, ma anche l’insieme delle loro contraddizioni: se in Hatrið mun sigra raccontano di odio (riprendendo anche il nome del gruppo, “odiatori”), in realtà gli Hatari sono ragazzi molto gentili e amorevoli. O ancora, hanno spesso accusato l’Eurovision di whitewashing e di falsità, per poi accettare di parteciparvi rappresentando l’Islanda. E come dimenticare la questione SodaDream? Il gruppo ha infatti iniziato a sponsorizzare un’acqua minerale in bottiglia (chiamata per l’appunto SodaDream), cosa che ha inizialmente sconvolto i fan da ogni parte del mondo. Eppure, basterebbe conoscerli per capire: era una provocazione riguardo la società isrealiana SodaStream!  Come se non bastasse, dopo l’edizione del 2019 (che, ricordiamo, si svolse a Tel Aviv), hanno dichiarato che il loro prossimo obiettivo sarebbe stato fare un’esibizione “in uno Stato in cui non è in atto un’occupazione illegale”.  

Sono nati solamente sei anni fa durante una passeggiata notturna in quel di Reykjavik. Eppure, gli Hatari possono già vantarsi di un’illustre carriera alle spalle, nonché di un progetto unico nel suo genere: un’eccellenza islandese goth che sembra uscita da un film di David Lynch. Un’estetica decisamente unica, specie se cantata in lingua nordica, che contrasta il monopolio dell’inglese!

Vonlenska

Ancora più particolari (ma sicuramente non a livello di concept) sono i Sigur Rós, gruppo post-rock formatosi a Reykjavík nel 1994: con quasi trent’anni di carriera alle spalle, questi ragazzi sono stati in grado di diffondere la propria cultura in tutto il mondo, affermandosi come pilastri della musica (nonché dell’identità culturale) islandese; da queste premesse potrebbe sembrare che la band canti in islandese, eppure vi sorprenderà sapere che non è esattamente così. 

La chiamano Vonlenska”, traducibile in inglese come “hopelandic”, ossia una lingua che definiremmo “speranzese”. Jón Þór Birgisson, cantante del gruppo, ha coniato questo termine proprio in riferimento alla lingua (o meglio, non-lingua) utilizzata nei loro brani. Ci si potrebbe chiedere, ovviamente, cosa significhi esattamente ciò che vuole intendere Birgisson: si tratta dell’utilizzo della glossolalia, ossia un’associazione di sillabe – prive di senso compiuto – finalizzate in questo caso a adattarsi alla musicalità dei pezzi, infondendo loro emozioni che neanche le parole con un senso sono in grado di dare. 

Forse, oltre all’estetica minimal, è proprio la Vonlenska la chiave del successo mondiale della band: sono parole incomprensibili che sembrano i primi versi di un bambino che vede per la prima volta il mondo, un po’ come se Birgisson stesse seguendo la poetica pascoliana del Fanciullino. Infatti, la band descrive nei testi paesaggi e storie in modo ingenuo, quasi infantile. Un esempio è il brano Hoppipolla, che descrive la bellezza del saltare nelle pozzanghere senza stivali.

Siamo dunque sicuramente in grado di dire che, se i Sigur Rós sono riusciti a sfondare nel panorama musicale persino con una lingua inventata, possiamo stare certi che il monopolio della lingua inglese può ritenersi finito

Anche l’Oriente ha la sua parte

Fin qui, nulla da togliere agli artisti menzionati, assolutamente. Quando però si parla invece di musica asiatica, sorgono spesso domande come: “Perché ascoltare qualcosa di cui non capisco le parole?”, come se il nucleo di un intero album fosse esclusivamente il testo – e come se si potessero capire al volo anche i testi spagnoli, per esempio.

Insieme allo spagnolo, il giapponese e il coreano forse sono le lingue che più stanno contrastando il monopolio del linguaggio inglese in musica: basti vedere come gruppi K-pop quali BTS e Blackpink siano arrivati a essere tra i più ascoltati al mondo, battendo ogni record possibile. È un genere esploso particolarmente negli ultimi anni, eppure nasce ben trent’anni fa, quando Lee Soo Man fonda la casa discografica SM Entertainment. 

E se fino a dieci anni fa era a malapena conosciuto il nome di un colosso come G-Dragon, con l’avvento di star quali CL, Hyuna e PSY si è arrivati al vero e proprio successo mondiale di un genere che utilizza un linguaggio completamente diverso dall’inglese. Sarà solo una tendenza temporanea, o siamo solo all’inizio del successo di un genere così variopinto?

Meno popolari sono gli artisti J-pop e J-rock (rispettivamente, il pop e il rock declinati secondo la cultura e lingua giapponese). Certo, artisti come Makoto Takeuchi e gli One OK Rock, nonché ogni singolo creatore di sigle per gli anime, hanno dato un incredibile contributo all’eredità artistica giapponese. A sua volta, il J-rock è arrivato a ispirare artisti di fama mondiale come i Tokyo Hotel, i Cinema Bizzarre e dARI. Come mai, dunque, non è riuscito a raggiungere il successo di un genere come il K-pop? Molto probabilmente a causa dell’arrivo della dance, che insieme al city pop giapponese hanno travolto gli ascoltatori J-rock (e non) da tutto il mondo. 

Le nostre conclusioni

Che si tratti di fenomeni temporanei o meno, una cosa è certa: non esiste più il monopolio (nonché la necessità) della lingua inglese in musica, e gli esempi citati finora lo dimostrano ampiamente. Nel frattempo, il nostro percorso alla ricerca delle varie declinazioni del tema del monopolio continua con la sezione di Spettacolo, con un articolo in uscita giovedì 18 febbraio.

 

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