La monopolizzazione della cultura da parte dell’Occidente è un fenomeno che ha profonde radici storiche e ha attraversato, nel corso dei secoli – complice il fenomeno delle globalizzazione – traiettorie sociali e culturali assai complesse, configurandosi sia come un fenomeno centripeto, ossia caratterizzato dall’accentramento di stimoli esterni verso un unico punto nevralgico; sia come un fenomeno di tipo centrifugo, vale a dire fondato sulla diffusione verso contesti esterni di culture, idee, stili di vita, mode, tecnologie e perfino orientamenti artistici.
Sotto questo profilo, il fenomeno del monopolio culturale è un argomento che tocca trasversalmente i più disparati degli ambiti. Non solo dunque monopolio economico, ma anche tecnologico, culturale, sociale e infine – non ultimo – artistico.
Beninteso, parlare di monopolio in ambito artistico potrebbe risultare assai fuorviante e anacronistico se si considera che la produzione artistica è sempre stata, quanto meno in prevalenza, un’attività di “assorbimento” di stimoli esterni. Sin dalle origini dell’arte occidentale le maestranze artistiche hanno sempre viaggiato lungo le traiettorie internazionali più di quanto non si pensi.
Monopoli museali
Esiste però anche un’altra declinazione di “monopolio artistico” che non riguarda specificatamente la produzione artistica, quanto piuttosto la sua appropriazione e conservazione negli ambiti museali.
L’attività di musealizzare beni culturali di interesse artistico è un fenomeno abbastanza recente da un punto di vista storico, che affonda le sue radici nel periodo tardo-illuminista compreso tra la fine del Settecento e gli inizi dellOttocento. Ovviamente, l’attività di conservazione ed esposizione di opere d’arte è una pratica che non nacque in questa fase, ma fu sempre più o meno praticata dai grandi mecenati, fossero essi imperatori, re, prìncipi o banchieri.
Ma per queste fasi ancora non si può parlare di “musealizzazione” stricto sensu, nella misura in cui la fruizione di manufatti artistici pregiati era destinata a un pubblico d’élite ed era un’attività anche intrinsecamente legata alla manifestazione del potere.
È soltanto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento che si può davvero cominciare a parlare di “musealizzazione”.
Quando ad esempio, a seguito degli sviluppi dell’archeologia, nel 1816 Leo von Klenze a Monaco progettò la Gliptoteca per ospitare l’esposizione della collezione di scultura antica di Ludovico I di Baviera. Oppure quando, nei primi decenni dell’Ottocento, il re d’Inghilterra Enrico III diede ordine di costruire l’imponente edificio in forme neoclassiche del British Museum per conservare ed esporre i beni culturali e archeologici di patrimonio nazionale, seppur provenienti da ricerche archeologiche compiute in Grecia (le statue del Partenone), Nord Africa (ad esempio la celebre stele di Rosetta) o Medio Oriente.
E queste prime grandi istituzioni museali ebbero tutte una matrice comune da cui presero esempio, non tanto nelle “forme”, quanto piuttosto nell’ambizione, ossia il Musée du Louvre, le cui sale, proprio dal 1793, vennero convertite in spazi d’esposizione di manufatti artistici.
La crisi dei “monopoli museali” e il fenomeno della “decolonizzazione culturale”
Sull’onda dell’enciclopedismo filo-illuminista, istituzioni come il Louvre o il British Museum iniziarono a raggruppare, catalogare e allestire manufatti e opere non solo di produzione “autoctona”, ma sempre più spesso e sempre con più tracotanza, complici le campagne coloniali (recenti e passate) e il conseguente “esotismo” ottocentesco, anche manufatti provenienti da contesti extra-nazionali tra i più disparati.
La stessa Italia, durante le campagne napoleoniche, vide il suo territorio e le sue ville private di buona parte del patrimonio storico-artistico locale (dipinti, sculture, sarcofagi romani…non la Gioconda!), che finì per riempire “contenitori” d’arte destinati a fruitori francesi. Ma nel corso dell’Ottocento e ancora nel Novecento, il colonialismo delle grandi potenze europee si ripercosse soprattutto sulle pratiche di spoliazione dei contesti colonizzati in area africana, asiatica, oceanica e non dimentichiamoci l’America Latina, portando all’affermazione di quello che potremmo considerare come una sorta di “monopolio museale” di vaste proporzioni, che riguardò Francia, Gran Bretagna, Belgio e Germania.
Anzi, in un certo senso si potrebbe dire che gran parte delle più prestigiose istituzioni museali europee attuali devono la loro affermazione storica proprio a queste forme di colonizzazione e riappropriazione dei beni culturali autoctoni. Del resto chi, visitando il British Museum, non si è mai chiesto come abbia fatto il monumentale Moai monolitico ad arrivare da Rapa Cui (Cile) all’Inghilterra?
Lo stesso Egitto, negli ultimi decenni si è mobilitato a richiedere la restituzione della celeberrima stele di Rosetta che dal 1802 si trova conservata ed esposta a Londra (British Museum), dopo una travagliata contesa tra Inghilterra e Francia (la stessa stele fu scoperta da un archeologo francese nel 1799 durante una campagna napoleonica in Egitto). Ed è proprio su questo punto che l’archeologo e antropologo inglese Dan Hicks fa leva nel suo recente saggio The Brutish Museum. Un volume dal titolo piuttosto eloquente, nel quale l’autore – tramite gioco di parole – sottolinea la violenza e la brutalità coloniale che può nascondersi dietro le decine e decine di manufatti e reperti che si possono osservare al British Museum, molti dei quali frutto di spoliazioni coloniali, ponendo l’attenzione sulla necessità di quello che, già dal secondo Novecento con i postcolonial studies, possiamo definire un processo di “decolonizzazione culturale”.
Un processo al quale nel 2002 hanno tentato di contrapporsi alcune grandi istituzioni museali europee, emanando la Declaration on the importance and value of universal museum, con la quale si sono opposte al rimpatrio dei manufatti nei paesi d’origine facendo leva sull’universalità e dunque internazionalità dei musei.
Anche le statue muoiono
Con “decolonizzazione culturale” si fa riferimento a tutte quelle attività messe in campo dalle istituzioni al fine di restituire parte del patrimonio culturale/artistico alle nazioni d’origine, dalle quali era stato prelevato con forza durante il passato coloniale. Si tratta di un fenomeno che nell’ultimo anno, dopo lo scoppio del movimento Black Lives Matter, è tornato in auge in maniera veemente, ma che in realtà non nasce ora, né tanto meno da qualche anno. Già nel 1953 infatti – dunque in piena decolonizzazione – i registi francesi Alain Resnais e Chris Marker produssero un documentario dal titolo Les Statues meurent aussi, ossia “Anche le statue muoiono”.
Nel documentario i due registi denunciavano, con uno sguardo specifico alle istituzioni museali belghe (come le Musée de l’Homme e il Museo del Congo Belga), le dinamiche di sopraffazione, brutalità e monopolizzazione artistica che si celavano dietro le attività di musealizzazione di quell’immenso patrimonio artistico accumulato dalle campagne coloniali, facendo leva sulla necessità restituirne parte ai contesti d’origine (si è calcolato che circa il 90% del patrimonio artistico africano si trova al di fuori del continente d’origine).
Questioni controverse
Dal Belgio passando per la Gran Bretagna la musica non cambia. Anche Hicks nel suo volume The Brutish Museum, sembra promuovere un appello accorato a tutto questo, dimenticando però (come può un archeologo dimenticarlo?) che proprio lo stesso British Museum tra il 2009 e il 2019 si è reso protagonista del rinvenimento di circa 2.300 opere (originali) trafficate illegalmente tra collezionisti privati, restituendole alle nazioni d’origine, come Afghanistan, Iraq e Uzbekistan. Tra i casi noti, si trova la restituzione al National Museum of Afghanistan di Kabul di una serie di 10 statuette, databili tra il 4 e il 6 d.C. circa e rappresentanti 9 teste di Buddha e un Buddha intero, che nel 2002 furono intercettate all’aeroporto di Heathrow e in attesa della fine del regime talebano restarono conservate a Londra.
È proprio qui però che si apre una questione abbastanza controversa sul sistema della musealizzazione in relazione alle dinamiche di “decolonizzazione” culturale. Se assumiamo come esempio l’Afghanistan, tra i tanti, vale anche la pena ricordare che ogni anno in Afghanistan vengono distrutti, trafugati o trafficati da bande terroristiche locali migliaia di reperti da tombe e musei, a causa anche dell’incuria delle autorità locali dovuta alle condizioni di instabilità politica. Tra gli ultimi spicca il caso dei resti archeologici e di uno straordinario minareto (databile al 1173) situati in un’area della “provincia” di Ghor, dal 2002 riconosciuto patrimonio UNESCO, ma che da anni continua a essere preda di furti e spoliazioni di materiale, nonostante il sito sia stato recintato dal ministero per permettere il restauro della base del minareto, senza però riuscirne a garantire un’efficace protezione.
Pensiamo se quelle 10 statuette del Buddha, una volta tornate in loco, fossero state preda di bande terroristiche e distrutte come accadde nel 2001 con i monumentali Buddha del Bamiyan (demoliti con cariche di esplosivo). Ecco, proprio il caso dell’Afghanistan offre lo spunto per riflettere attorno ad una questione abbastanza controversa: dal momento che l’UNESCO riconosce siti e manufatti costituenti beni culturali di rilevanza come parte del patrimonio inalienabile dell’intera umanità, nel momento in cui i singoli Stati non sono in grado di garantire la preservazione dei propri beni “patrimonio dell’umanità”, è giusto “restituirli” a questi contesti?
Certo è che in molti casi l’instabilità politica locale è conseguenza della passata dominazione coloniale e poi di un subitaneo abbandono non accompagnato da una “transizione democratica”, ma questo non vale ovunque. Non sempre il luogo d’origine di un’opera si configura quindi anche come il contesto più adatto per la sua attuale conservazione e protezione.
Probabilmente la soluzione migliore sarebbe quella di dare vita a delle azioni congiunte che vedano le istituzioni occidentali contribuire con le istituzioni locali al fine di migliorare l’attività di protezione, salvaguardia e valorizzazione del patrimonio locale sulla base di accordi e progetti di respiro internazionale, come già sta accadendo da diversi anni nei Paesi democratizzati.
Ancora una volta emerge dunque quanto la realtà sia molto più sfumata e complessa di quanto si possa credere.
Vi è poi un altro interessante tema, molto più trasversale, che per ora occorre sfiorare soltanto e pertiene l’arte “esotica” nel contesto occidentale: Gauguin sarebbe stato lo stesso senza la sua attrazione per Tahiti (colonia francese)? Picasso avrebbe rivoluzionato la pittura del Novecento con Les demoiselles d’Avignon (1907) se a Parigi non fosse entrato in contatto, proprio nel 1907, con le maschere africane e oceaniche che poté ammirare al Musée du Trocadéro?
Ribaltando la prospettiva si potrebbe dire che furono gli artisti europei del primo Novecento, intraprendendo un orientamento artistico cosiddetto “primitivista”, che contribuirono più di tutti a conferire una dignità artistica all’arte dei contesti oltreoceano. E del resto furono proprio le opere di grandissimi artisti come Picasso, Matisse, Klee e altri che nel 1937 furono esposte e poi distrutte – seppur in loro copie – durante l’abominevole mostra Entartete Kunst (“Arte Degenerata”), tenutasi e Monaco e organizzata dal partito nazista al fine di esporre con la volontà di deridere e poi distruggere tutte quelle opere di orientamento “primitivista” che non rientravano nei “canoni” del regime…
Il modello degli Ecomusei
Vi è anche da sottolineare che, seppur con qualche decennio di ritardo, sono state le stesse nazioni europee negli ultimi decenni a mobilitarsi per la restituzione dei manufatti ai paesi d’origine. Lo stesso presidente francese Macron nel 2017, durante un incontro diplomatico in Burkina Faso, ha annunciato la volontà da parte della Francia di restituire nell’arco di cinque anni le opere ai loro contesti d’origine, affermando che: “il patrimonio africano non può più rimanere ostaggio dei musei d’Europa”.
Tuttavia, è bene anche ricordare che la salvaguardia dei contesti locali non riguarda soltanto le aree “esotiche”, ma anche realtà tradizionali molto vicine a noi che rischiano di vedere minacciati gli stili di vita locali e le specifiche tradizioni culturali e materiali delle relative comunità.
Proprio sulla base di questa necessità di tutela dei patrimoni tradizionali locali, già dagli anni Settanta del secolo scorso si è affermato, nell’ambito della Nuova Museologia, il modello dell’Ecomuseo, la cui prima teorizzazione sistematica è da ricondurre ai due grandi archeologi e museologi francesi Hugues de Varine e Georges Henri Rivière.
Nello specifico, Rivière definì l’Ecomuseo come:
Uno specchio in cui questa popolazione si guarda, per riconoscersi, cercando la spiegazione del territorio al quale appartiene, assieme a quelle popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinuità o nella continuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione offre ai propri ospiti, per farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità.
Parafrasando possiamo dire che con Ecomuseo s’intende quell’insieme di attività volte alla cura e gestione sostenibile del patrimonio storico, culturale, materiale e territoriale locale, fondate sulla partecipazione attiva delle popolazione e degli enti locali al fine di garantire la conservazione e la perpetuità delle relative tradizioni.
Si tratta dunque di un modello che si impernia su due punti cardine fondamentali: la partecipazione attiva della popolazione locale e il rispetto delle tradizioni locali unito alla conservazione/promozione del proprio patrimonio tradizionale nel territorio specifico in cui prende forma. L’Ecomuseo costituisce quindi una sorta di organismo che, pur rivolgendosi anche a un pubblico esterno, ha come interlocutori principali gli abitanti della comunità.
In tal senso cambia radicalmente la nozione stessa di museo: da “contenitore” neutro di manufatti decontestualizzati, si configura come il territorio vivo e partecipato delle popolazioni locali. Il museo non è più quindi un contesto statico, chiuso e predeterminato, ma si incarna nell’ambiente dinamico, aperto e in continua trasformazione che mantiene i legami con le proprie radici storiche.
Gli Ecomusei in Italia e in Lombardia
Questo modello culturalmente e ambientalmente sostenibile di “musealizzazione” di un territorio aperto e dinamico ha visto la sua prima formulazione in Francia, come si diceva, ma nel giro di diversi decenni è approdato anche nella realtà italiana, radicandosi nei progetti di valorizzazione territoriale delle regioni.
Sotto questo profilo, come testimonia il Documento Strategico degli Ecomusei, attualmente in Italia sono dodici le regioni nelle quali è stata approvata una normativa specifica sugli ecomusei. La regione apripista fu il Piemonte nel 1995, l’ultima è stata la Sicilia, che ha approvato la propria normativa definitiva nel 2014.
Anche la Lombardia ha adottato e normato il modello degli ecomusei. I primi esempi normativi sono rintracciabili nel 2007, riordinati infine in un’unica legge regionale (Legge Regionale n. 25) approvata nel 2016 allo scopo di “promuovere il riconoscimento e la costituzione degli ecomusei”.
Soffermandoci nello specifico sulla realtà lombarda, attualmente in Lombardia sono 34 gli ecomusei riconosciuti ufficialmente e riguardano le province di Bergamo (5), Brescia (10), Como e Lecco (4), Mantova (4), Milano (3), Pavia (3) e infine Varese (5).
La casistica dunque è davvero numerosa e diversificata e ciascun ecomuseo meriterebbe un proprio specifico approfondimento (qui l’elenco completo e dettagliato degli ecomusei lombardi).
A puro scopo esemplificativo, tra i più significativi ecomusei lombardi, soprattutto per il bagaglio storico-artistico che reca con sé, troviamo sicuramente l’Ecomuseo del Paesaggio della Lomellina. Un contesto che abbraccia l’intero territorio dell’area della Lomellina, storica area pianeggiante del pavese che si estende dai confini con il Ticino lungo buona parte della pianura padana. Già soprannominata la “Mesopotamia lombarda”, in virtù della produttività dei suoi terreni, nonché zona di passaggio della via Francigena, è oggi sede di importanti attività di promozione e valorizzazione del patrimonio storico locale, secondo una prospettiva a tutto tondo.
Gli itinerari organizzati dall’ecomuseo del paesaggio lomellino prevedono infatti, sulla base di una partecipazione attiva della comunità, la scoperta della più viva storia locale sotto tutti i punti di vista: partendo dalla storica tradizione delle risaie e dei prodotti enogastronomici tipici, fino ad arrivare ai contesti architettonici più pregevoli, tra cui palazzi ducali medievali, resti e torri degli antichi castelli, nonché le importantissime architetture chiesastiche di Robbio, Breme e Lomello, sedi di alcuni dei contesti monumentali più significativi dell’alto e pieno Medioevo, tra i più storicamente significativi del cosiddetto “romanico lombardo”.
FONTI
Claudio Pescio (a cura di), Dossier Arte vol. 3, dal Neoclassicismo all’Arte Contemporanea, Giunti (2015)
ANMS (Associazione Nazionale Musei Scientifici)
Su Hugues de Varine e l’Ecomuseo “Gérer ensemble – notre patrimoine sur notre territoire”
CREDITS
Panoramica British Museum – scattata dall’autore
Moai – scattata dall’autore