Il 9 novembre 2016 Donald John Trump diventava il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America.
Michael Moore ci guida in un viaggio ai limiti della morale in Fahrenheit 11/9, mostrandoci le infinite e agghiaccianti ombre dei primi due anni di presidenza dell’uomo più discusso del nuovo millennio.
Spendere parole sul talento documentaristico senza pari di Michael Moore risulta nel 2021 alquanto inutile. Il regista di Flint, premio oscar nel 2003 per Bowling a Columbine, continua senza remore a mostrare il vero volto dell’America, andando oltre le fotografie idilliache e il falso mito del “Paese più grande del mondo”. La credibilità autoriale guadagnata negli anni e la forza di sapersi porre sempre dal lato più scomodo della barricata lo hanno reso un pilastro del proprio genere cinematografico. Il suo stile di montaggio, la sua ironia e il suo essere parte della storia sono elementi che hanno fatto scuola e, seppur ridondanti nelle sue opere, non invecchiano ma si riconfermano come una firma d’autore.
Autolesionismo Democratico
Tra qualche mese, quando ci renderemo conto che la democrazia che speravamo di avere non c’è mai stata e che quel poco che c’era è stato spazzato via a causa di un’emergenza nazionale, allora ci chiederemo:
Quando è stato il momento in cui avremmo potuto invertire la rotta prima che fosse troppo tardi?
Il primo passo è senza dubbio capire come sia stato possibile arrivare a questo punto: Donald Trump presidente degli Stati Uniti d’America. Il suo volto proiettato sull’Empire State Building mentre i sostenitori di Hilary Clinton piangono per le strade di New York. Di chi è la colpa? Ironicamente Moore ci racconta un curioso aneddoto che sembrerebbe rispondere a questa domanda con il nome di Gwen Stefani. Ben presto però il sarcasmo lascia spazio allo sconcerto e alle rivelazioni su come tutto sia iniziato, mettendo in dubbio le nostre convinzioni su chi siano i buoni e chi i cattivi in questa triste vicenda a stelle e strisce.
La storia di queste elezioni è senza dubbio la cronaca di una delle débâcle elettorali più impreviste di sempre. Secondo i sondaggi, Hilary Clinton era già presidente e le possibilità di Trump erano ridotte a un misero 15%. Eppure qualcosa è andato storto. Qualcosa ha allontanato il popolo americano dal Partito Democratico. Che cosa?
Il Partito Democratico stesso.
Moore ci mostra un partito che ha mentito ai propri elettori, estromettendo dalla corsa alla Casa Bianca Bernie Sanders, il paladino del cambiamento per molti americani. Forse perché questi era troppo moderato. O forse perché Hilary rispecchia maggiormente l’ideale di presidente democraticamente non democratico che tanto piace al partito.
Basti guardare ciò che è stato Obama per il suo Paese. Il ritratto che il regista fa del primo presidente afroamericano della storia risulta impietoso. Ne vengono evidenziati gli innumerevoli passi falsi e le discutibili azioni di politica sociale. Un’illusione abilmente manipolata di un futuro diverso che non esiste, in mano a una classe politica avida e incurante dei problemi dei cittadini.
Non ci sono santi nella torpida corsa alla Casa Bianca.
Benvenuti a Flint
E parlando di torpido eccoci a Flint, Michigan.
Michael Moore ci riporta ancora una volta nella sua città natale. Nonché la città più povera degli Stati Uniti. L’unica ricchezza del luogo è data dalla vicinanza con il lago Huron, uno dei bacini d’acqua dolce più grandi del mondo che garantiva un approvvigionamento idrico di prim’ordine per la popolazione locale. Parlare al passato purtroppo è d’obbligo visto il terribile scenario che il regista ci pone davanti. Nel 2014 il governatore del Michigan Rick Snyder, amico del famigerato Donald, decise di deviare il corso dell’acquedotto di Flint dal lago Huron all’inquinatissimo fiume Flint, dichiarando che per gli abitanti non sarebbe cambiato nulla. Risultato?
Bambini con intossicazione da piombo, aumento del numero di persone affette da tumori e malattie della pelle e svariati morti causate dalla legionella.
Dopo anni di proteste, con lo stesso Moore in prima fila a innaffiare il giardino di casa Snyder con un’autocisterna caricata direttamente dal fiume Flint, forse si intravede la luce. Gli appelli sembrano essere giunti a destinazione. Ecco che arriva il presidente Obama, idolo della città di Flint, a risolvere la situazione.
Sale sul palco. Inizia il solito discorso a supporto della comunità e… SORPRESA! Si schiera a favore del governatore Snyder, descrivendo l’acqua di Flint come pulita e salubre. Il regista insiste nel sottolineare l’ipocrisia del comportamento dell’allora presidente. E non finisce qui. Lo stesso Obama manderà l’esercito degli Stati Uniti nella cittadina a addestrarsi nei palazzi abbandonati da coloro che sono fuggiti da quell’avvelenamento di massa. Così i poveri abitanti di Flint, Michigan, sono ora costretti a lavarsi con l’acqua in bottiglia e a svegliarsi nel cuore della notte a causa dei rumori delle bombe e dei mitra.
La grande bugia americana
Fahrenheit 11/9 tocca tutti i punti sensibili del panorama sociale statunitense. Moore dedica maggiore attenzione a ciò che reputa più d’impatto e scioccante per il pubblico, ma non dimentica nulla e nessuno. Ci mostra la dura lotta degli insegnanti del West Virginia per l’aumento salariale del 5%. Uno scontro fatto di settimane di richieste di solidarietà e scioperi. Contro sindacati corrotti che firmano accordi per il proprio interesse e non per quello dei lavoratori. Contro delle istituzioni incapaci, spesso per scelta, di andare oltre i numeri e vedere le vite al limite della maggior parte delle famiglie americane.
Infine ci riporta ad affrontare una ferita dolorosa e costantemente aperta nella terra a stelle e strisce. Le stragi scolastiche a opera di ragazzi liberi di essere armati. Quest’ultimo tema si lega inevitabilmente al docu-film che ha consacrato il regista e lo ha portato all’attenzione del grande pubblico internazionale, Bowling a Columbine. Si vuole riaprire il dibattito riguardo le leggi che consentono a un diciottenne di possedere un fucile d’assalto. Si cerca di capire perché in un paese civile siano necessarie tutte queste armi. È da questo punto buio che Michael Moore sembra portare la storia a una possibile svolta: la resurrezione dalle ceneri di un regno in rovina, privo di valori e in cui la gente non crede più.
La speranza che Michael Moore intravede per gli Stati Uniti d’America risiede solo nella generazione che verrà. Una gioventù senza filtri o catene, che non teme la censura politica. Ragazzi uniti che marciano in tutti gli stati del paese per difendere ciò che è giusto. Un ideale di libertà dalla dittatura del denaro e della corruzione. La fiaccola del cambiamento che anima le masse e le spinge a riflettere sull’eredità che rimarrà tra le mani dei figli degli uomini. La spregiudicatezza e la voglia di rivoluzionare il mondo dei giovani del nuovo millennio contrapposta al conservatorismo caustico perpetrato dalla classe degli adulti. Questa è la lotta che può cambiare le sorti del paese. Un sentiero senza dubbio lungo e tortuoso, ma che non possiamo non seguire.
Non ci credi, finché non succede
Perché salvare questa America?
L’America che io voglio salvare, è l’America che non abbiamo mai avuto.
Moore ci mette di fronte a un’analogia da brividi. Donald come Adolf.
Sbeffeggiato da tutti all’inizio. Ignorato e tacciato come nulla più di un comico con manie di grandezza. Un buffone. Un personaggio discutibile che mai avrebbe potuto raggiungere un ruolo di potere.
Eppure la storia ci aveva già raccontato una vicenda simile.
Ci aveva già mostrato una scalata simile in Germania o in Italia.
E sappiamo tutti com’è finita.
Questa è la firma di Michael Moore.
Una chiusura forte, forse apparentemente eccessiva. Ma così terribilmente vera.