Il termine “Monopolio” viene normalmente associato alla sfera economica, area in cui è definito come la forma di mercato in cui la domanda e l’offerta di un servizio o un bene è affidata ad un solo venditore, eliminando la concorrenza e portano quindi alla chiusura del mercato. È per questo che esiste la legislazione antimonopolistica, spesso indicata con il termine inglese antitrust, che definisce il complesso delle norme che sono poste a tutela della concorrenza.
Le tipologie principali di monopolio sono due: monopolio naturale e monopolio legale, e si distinguono in base alla loro origine. Il primo è il risultato di leggi che limitano esplicitamente la concorrenza, mentre il secondo dalla struttura stessa di un sistema produttivo (come nel caso dell’ambito economico, in cui un’azienda produce un bene o servizio ad un costo così inferiore rispetto alle altre aziende che i compratori sono fedeli alla prima).
Monopolio culturale: Amazon e il suo controllo sull’editoria
Come tutto quanto, in un mondo globalizzato il monopolio economico è diventato anche un monopolio culturale. Prendiamo il caso di Amazon. È ben risaputo che Amazon ha il monopolio dell’e-selling, e di particolare interesse è l’area della vendita dei libri.
Grazie ai prezzi bassi a cui vendei libri, ancora più vantaggiosi se si compra la versione Kindle (marchio e-book della stessa Amazon), la concorrenza non è in grado di mantenere il ritmo. Il problema culturale sorge quando prendiamo in considerazione le tecniche di marketing di Amazon: l’azienda pubblicizza sul sito solo i libri più popolari riducendo gli altri a doversi accontentare della pagina 30, 50, 120. E, siamo onesti, chi di noi è mai andato oltre alle prime pagine del sito? Questa tecnica penalizza gli scrittori meno mainstream, i quali sono poi abbandonati dalla loro casa editrice e vengono così silenziati.
Per analizzare al meglio il fenomeno del monopolio culturale, è necessario adottare una prospettiva sociologica che spiega il rapporto con la globalizzazione.
Sociologia della globalizzazione: cosa sono l’hybridization e l’omogeneizzazione?
Una delle visioni predominanti sulla globalizzazione della cultura è quella dell’omogeneizzazione, conosciuta anche come la teoria della McdDonaldizzazione del sociologo Ritzer. Questa prospettiva si incentra sull’idea che un piccolo numero di big media domini il mercato, finendo per replicare la stessa cultura in tutto il mondo. Siccome la cultura è creata da queste grandi aziende occidentali, si parla anche di un processo di occidentalizzazione, in cui si omologa il resto del mondo a immagine dell’Occidente.
La cultura di cui si parla, in questo caso, è principalmente la cultura del consumo: dal cibo alle serie-tv, ai film e alla musica, che giunge solitamente in Paesi dell’Est (Korea del Sud, Giappone etc.).
Una delle alternative alla teoria dell’omogeneizzazione è l’hybridization (ibridazione). Prendiamo il caso dell’industria cinematografica indiana Bollywood, la quale domina indiscussa in India ed è esportata in numerosi altri Paesi come USA, UK, Cina e Giappone. È inutile negare che è più comune vedere gli Stati Uniti che influenzano gli altri Paesi con i loro programmi televisivi e film, ma non vuol dire che sia per forza sempre così.
Non scordiamoci la differenza tra globalizzazione culturale e globalizzazione dei media. La prima è molto più profonda e va a influenzare i valori di una società, mentre la seconda riguarda solo i media. Non a caso esiste la glocalizzazione: i produttori occidentali adattano i loro prodotti al Paese in cui si trovano perché sono consapevoli che in una società ci sono dei principi di base che non posso essere cambiati.
Potremmo dire che ci troviamo in una società ibrida e che quindi anche lo stile, la lingua e l’identità sono ibridi. La sociologa Waters sostiene che
la globalizzazione non comporta solo portare il centro alla periferia, ma anche la periferia al centro
e intende tanto i media quanto i beni, l’informazione e le persone.
Questo non è un fenomeno che accade solo nell’età contemporanea, o nell’ultimo stadio della globalizzazione, ma è iniziato molto prima. Diversi studiosi della storia della globalizzazione sostengono che prima della modernità, le civiltà “avanzate” dell’Oriente avessero già influenzato l’Occidente, e si parla di influenze che il mondo occidentale si è portato fino alla modernità. Principalmente, gli storici tentano di correggere la visione eurocentrica che impone l’Occidente come forza dominante e onnipotente. È fondamentale che la cultura non-occidentale non sia vista come passiva e impotente, o un’opzione opposta a quella occidentale. Ci sono influenze che provengono da entrambe le parti e sono concatenate.
L’idea che la cultura del mondo sia resa omogenea a quella occidentale perché l’Occidente la impone dappertutto attraverso la globalizzazione è troppo semplicistica. Non si riconosce il ruolo importante delle persone, le quali sono in grado di definire la propria cultura nonostante le forze imponenti delle grandi aziende. Dovremmo vedere le culture come intersecate tra di loro e riconoscere una certa pluralità e autonomia.
Pierre Bourdieu e la globalizzazione culturale come strategia di marketing
Il sociologo francese Pierre Bourdieu sosteneva che la “cultura è in pericolo” a causa del marketing nell’economia globale. Infatti, lui è uno dei pochi a non separare la cultura dal potere e dall’economia. Il valore commerciale dei contenuti culturali condiziona la produzione e distribuzione di tali contenuti, infatti i prodotti culturali che non portano grandi profitti sono ignorati.
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Secondo Bourdieu, già ai suoi tempi mancava la protezione della cultura dall’influenza dei fattori economici. In teoria, aprire la cultura alla competizione sul mercato dovrebbe permettere alla diversità di espandersi in tutto il mondo. Tuttavia, Bourdieu pensa che la competitività spinga alla dominanza dell’omogeneità perché sopravvivere nel mercato diventa troppo costoso per gli agenti minori e quindi la cultura si riduce ai prodotti che portano più guadagni.
Secondo Bourdieu quello che sta accadendo è “la distruzione della civiltà” perché la struttura dell’industria culturale è sempre più controllata da un numero effimero di grandi aziende. Già all’epoca di Bourdieu, il sociologo notava che il mondo dell’editoria era concentrato nelle mani di pochi e che le aziende che possedevano i mezzi di distribuzione influenzavano fortemente cosa veniva prodotto.
Il monopolio dei dati da parte delle big tech
Tornando al concetto di monopolio in generale, nel mondo attuale è inevitabile collegare questo tema all’uso monopolistico dei dati da parte delle grandi aziende tech.
I big data si confermano una forza importantissima del ventunesimo secolo ma la consapevolezza di tale importanza è limitata alle grandi aziende, e in particolare ai colossi americani come Google, Facebook, Amazon che sfruttano a loro vantaggio gran parte delle informazioni disponibili sul web. La quantità di dati, e quindi informazioni, che produciamo ogni minuto è incredibile:
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- 222 ore di video riprodotte su Netflix
- 111 pacchi consegnati da Amazon
- quasi 4 milioni di ricerche effettuate su Google
- quasi 50 mila foto pubblicate su Instagram
I dati prodotti non sono immateriali, anche se sembra così a primo impatto. Questi dati costituiscono un perfetto tracciato dell’utente in quasi ogni aspetto della sua vita, dal tempo libero (Spotify, Tinder, Netflix) alla sfera professionale (LinkedIn).
Dato che quasi ogni ambito della nostra vita produce dati, sembra evidente quanto sia importante assicurarsi che non finiscano nelle mani sbagliate. Ma questi dati sono nelle mani di pochi e in particolare si parla del monopolio americano dei dati, da parte delle grandi aziende come Facebook, Amazon e Google.
Mark Zuckerberg ha capito da tempo l’importanza di controllare il maggior numero di dati, acquistando Whatsapp e Instagram. Le informazioni messe a disposizione degli utenti sono poi utilizzate per vari scopi, tra cui marketing personalizzato sul nostro comportamento.
Non da meno è Google che non è solo un motore di ricerca, ma controlla le mail inviate, ricevute e cancellate, e addirittura la cronologia delle posizioni di Google Maps.
Anche Amazon dispone di una significativa quantità di dati che vengono utilizzati per ricostruire abitudini di consumo e di navigazione, ma soprattutto conoscere la disponibilità economica dell’utente. Informazioni che vengono poi utilizzate per riempire la homepage dei clienti con prodotti che potrebbero interessare.
Queste aziende investono continuamente nella tecnologia assicurandosi così il monopolio dell’area. Secondo statcounter.com, il 92% delle ricerche sul web viene effettuato tramite Google, 7 interazioni su 10 avvengono con Facebook e quasi 1 acquisto online su 2 avviene su Amazon.
In Italia, il mercato dei Big Data è effettivamente in espansione, avendo registrato un +28% rispetto all’anno precedente (2019). Secondo una ricerca degli Osservatori di Digital Innovation del 2018, solo un’azienda su tre ha cominciato ad investire in tecniche di Machine Learning e Deep Learning. Purtroppo, un’azienda su due presenta ancora un modello lavorativo tradizionale per i dati e ciò provoca una mancanza grave di un fattore che potrebbe portare al successo in un mondo dettato dai dati.
Il monopolio dei dati esiste anche in Oriente
Oltre allo scontro tra governo e big tech, c’è anche lo scontro Occidente contro Oriente, riassumibile in due acronimi:
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- FAANG: acronimo usato per denotare Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google.
- BAT: Baidu, Alibaba e Tencent in Cina
Il confronto fra FAANG e BAT è uno dei campi di battaglia più importanti su cui si giocherà la competizione geopolitica ed economica fra Occidente e Cina. Prima della pandemia si prevedeva che in poco tempo BAT avrebbe raggiunto FAANG in termini di fatturato con anche maggiori prospettive di crescita dovute alle maggiori potenzialità di crescita del settore digitale in Cina piuttosto che in Occidente. La pandemia ha cambiato le aspettative perché vi è un numero maggiore di transazioni digitali, il che può rappresentare un punto di forza per i giganti digitali.
Numerosi esperti pensano che la soluzione al monopolio dei dati, orientale e occidentale, sia la garanzia del pluralismo economico online che tutela la privacy e evita eccessive concentrazioni di potere nelle mani delle grandi aziende. Tale grande quantità di dati nelle mani di coloro che sono liberi di accedervi e allo stesso tempo sanno analizzarli a scopi lucrativi è un grave problema non solo economico ma anche democratico, dato che c’è il rischio di influenzare la libertà decisionale dell’utente.
Il potere delle big tech è solo destinato ad aumentare senza le adeguate contromisure antitrust, le quali non solo rappresentano uno strumento di tutela del mercato e dei consumatori, ma anche della democrazia e delle libertà civili.
Chi è Jack Ma e come ha cambiato la Cina?
Jack Ma Yun è nato il 10 Settembre 1964 a Hangzhou, durante la rivoluzione culturale cinese. A 12 anni inizia a imparare l’inglese da autodidatta. Si offre come guida turistica nella sua città e nel 1979 conosce una famiglia australiana che lo ospiterà per le vacanze estive nel 1985: è per Ma la prima occasione per uscire dalla Cina. Si laurea in inglese e comincia la sua carriera come insegnante di inglese all’università. Nel 1995 va a Seattle per un lavoro da interprete per una delegazione commerciale e per la prima volta si connette a Internet: l’esperienza lo colpisce tanto da richiedere un prestito di 2.000 dollari per aprire e gestire un sito in Cina.
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Dopo aver lavorato per una serie di compagnie statali cinesi, a dicembre 1998 raccoglie 60.000 dollari e con 18 amici fonda il sito Alibaba, per poi fondare la Alibaba Group. A maggio 2003 viene fondata la piattaforma di vendita online Taobao, mentre nel dicembre 2005 Alipay, un servizio di pagamento online. Il 10 settembre 2018, Jack ha annunciato il suo ritiro dalla carica di amministratore delegato della Alibaba Group.
Jack Ma è una delle persone più ricche della Cina e una delle più benestanti al mondo con il suo patrimonio di 38,6 miliardi di dollari. Il suo successo è iniziato grazie a Alibaba: multinazionale cinese con sede a Hangzhou, composta da una serie di società attive nel settore del commercio elettronico. Lo scopo di Ma è connettere il produttore cinese agli acquirenti e distributori stranieri.
Il gruppo ha sviluppato anche Alipay, un servizio di pagamento simile a Paypal. Alipay ha un totale di 700 milioni di utenti registrati e ha accordi di associazione con più di 65 istituzioni finanziarie, incluse Visa, MasterCard e tutti gli istituti di credito della Cina. Il punto di forza di tale metodo di pagamento è che l’azienda fornisce un servizio di acconto di garanzia, che permette agli utenti di verificare i prodotti acquistati prima di pagare i venditori.
Il controllo monopolistico dei dati di Ma
Il caso di Jack Ma e del suo impero e-commerce (Alibaba) è solo l’ennesimo esempio dello stesso problema che si vede in Occidente riguardante le piattaforme tech (Mark Zuckemberg, Jeff Bezos etc.)
A ottobre, Jack Ma ha tenuto un discorso contro le banche pubbliche cinesi che ha portato al blocco della quotazione di Ant Group, piattaforma di pagamenti digitali usata da oltre un miliardo di utenti e 80 milioni di commercianti. Le banche d’affari di mezzo mondo avrebbero dovuto incassare commissioni importanti ma le hanno perse. La motivazione del governo cinese è stata che l’azienda violerebbe direttive antitrust e norme prudenziali di intermediazione finanziaria. Si pensa che il blocco sia stato spinto da Xi Jinping.
La società Ant Group si occupa di gestire numerosi dati personali (debitori, clienti, abitudini di consumo, viaggi, pagamenti di utenze). Inoltre, la società eroga anche prestiti, ma nel ruolo di mediatore: acquisendo, cioè, i fondi dalle banche tradizionali, così che ci sia poco rischio di credito in proprio.
La guerra contro le banche di Jack Ma è iniziata quattro anni fa, quando i giganti del credito della Cina hanno notato che i depositi arretravano per colpa di Yu’ e Bao, il sistema ideato da Ma per mettere i soldi in un fondo d’investimento scegliendo la destinazione direttamente dal telefonino e senza passare da altri intermediari. Basta attivare Alipay, gestita da Ant Group. Alternativa semplice e comoda.
Il grande successo di Ma ha scatenato la furia delle banche cinesi e tutte le istituzioni collegate. Si è quindi giunti ad un compromesso: Ant group accettò di porre un tetto limite alla raccolta di dati e regole più severe. Così i depositi amministrati da Ant Group sono scesi di oltre un terzo.
Ma il compromesso non è servito a molto, il nuovo nemico di Jack Ma non erano più le banche, bensì il dittatore Xi Jinping. Il conflitto è diventato evidente agli occhi del mondo nel momento in cui le autorità hanno sospeso la quotazione di Ant innescando il calo sia delle azioni di Alibaba che del patrimonio di Ma.
Nella sua ultima apparizione in pubblico il 24 ottobre al Bund Summit di Shanghai, Jack Ma ha sostenuto che
innovare senza correre rischi equivale a non innovare. Spesso, evitare i rischi è la politica più rischiosa.
Da allora il miliardario non si è più visto in pubblico, circostanza che ha fatto temere il peggio, ma alla fine Ma ha dichiarato di stare bene e si è ritirato per paura della pandemia e non del presidente Xi.
Da una parte, il presidente non può tollerare il dissidio interno tra le banche e l’e-commerce di Ma, ma dall’altra non ha interesse a sacrificare i vantaggi che Ant group ha portato sia al sistema, sia ai singoli utenti.
Il caso Jack Ma segna l’intersezione di due grandi temi: il ruolo delle politiche antitrust e l’esigenza di non mettere a rischio la stabilità finanziaria nazionale.
Nel prossimo articolo, in uscita lunedì 8 febbraio, ci concentreremo su un altro settore nel quale il concetto di monopolio, in particolare quello della Francia, è stato un elemento centrale, ma in cui ora le cose sono cambiate: il mondo della moda.