Ho passato la vita a guardare negli occhi della gente, è l’unico luogo del corpo dove forse esiste ancora un’anima.
Josè Saramago
Condensata all’interno di uno sguardo c’è davvero tutta l’interiorità di un individuo. Non a caso il volto di una persona si delinea attraverso la contrazione o il rilassamento dei muscoli facciali, portavoci di sentimenti quali gioie o paure. Ma lo sguardo è ciò che, più di tutto, esprime l’anima, rivelando sia il passato che il presente della nostra esistenza.
Fin dalla notte dei tempi l’uomo è sempre stato affascinato dal suo potere. Dall’Egitto, alla Grecia, fino alla Roma antica, la storia dell’arte è costellata di sguardi a cui sono stati attribuiti i significati più disparati. Può essere simbolo di buon augurio, di protezione o di richiamo delle energie positive. Ma scopriamo di più.
Tra sacrum e secretum
Gli Egizi, ad esempio, utilizzavano un solo simbolo come pars pro toto, per raffigurare l’onnipresenza e l’onniveggenza del Dio del sole Ra. Narra infatti la leggenda che il Sole, Ra, perso il proprio occhio, decise di inviare i propri figli Shu e Tefnut a recuperarlo, ma il tempo passava e costoro non ritornavano. Ra decise quindi di sostituirlo, ma, nel frattempo, l’Occhio ritornò e dalla rabbia per essere stato sostituito, si mise a piangere. Le lacrime che ne derivarono, remut, diedero così origine agli uomini, remet. Il Dio, allora, trasformò l’Occhio in cobra e se lo pose sulla fronte, diventando così l’Ureo in grado di fulminare i nemici del divino.
L’occhio, per il mondo antico, è quindi da considerarsi sacrum, ma secondo la psicologia dell’arte, questa parola va analizzata in un contesto molto più ampio di cui fa parte anche il termine heimlich. Il suo significato rimanda ai concetti di confortevole e familiare ma, se preceduto dalla particella negativa un-, va a formare la parola unheimlich, perturbante. Qualcosa, dunque, di talmente intimo e segreto da diventare angosciante. Da ciò è possibile dedurre che l’occhio è sacro, ma cela in sé qualcosa di disturbante che viene alla luce proprio quando ciò che lo nasconde lascia al suo posto un vuoto, cioè quando lo sguardo è assente.
A fronte di questa considerazione, nell’Antica Grecia si era soliti costruire statue, non solo con i piedi uniti o saldati al corpo, ma soprattutto cieche. Il primo a dare alle figure l’illusione del movimento e ad aprire loro gli occhi, donandoli così la vita, fu Dedalo.
L’occhio che dà la vita
Il tema dello sguardo come simulazione di vita appartiene anche al più recente living portrait, ritratto animato. Ma si rivolge anche al cosiddetto rito di completamento, tipico delle culture orientali, come quella dello Sri Lanka, attraverso cui un artista, messo di spalle rispetto alla statua del Budda, dona la vita alla scultura. Lo fa dipingendole gli occhi, primo e ultimo simbolo dell’esistenza terrena, guardando, oltre le spalle del Buddha, il suo riflesso attraverso uno specchio.
In realtà, l’occhio e lo sguardo mostrano un certo potere già all’interno di alcuni importanti miti. Un esempio indiscusso, dietro il quale si cela il primo nucleo antropologico della gestualità è il mito di Medusa. Lei era la gorgone che Perseo fu costretto a decapitare per riuscire a bloccarne l’effetto pietrificante. E nientemeno che Caravaggio decise di rappresentarla, concentrando tutta la sua potenza espressiva proprio negli occhi, talmente straniati da colpire immediatamente l’osservatore, assieme all’eccellente realismo del volto contratto dalla paura e dal dolore.
Scudo contro il διαβολικό μάτι
Successivamente, l’occhio riprese la sua connotazione di semplice elemento del volto tornando in evidenza per il suo valore apotropaico, utile per allontanare o annullare gli influssi maligni. Come le cosiddette kylix con occhioni greche del VI sec. a.C. Trattasi di coppe sulla cui parete esterna sono esibiti due grandi occhi che, bevendo dal calice, vengono avvicinati al viso, coprendolo totalmente.
Il vaso diventa quindi una maschera che fissa lo spettatore. In questo modo gli occhi fungevano da protezione, sia contro i malefici del vino, che contro gli sguardi maligni degli spettatori che osservano chi beveva. Non solo, ma tali coppe si prestavano addirittura come mezzo per lanciare agli altri il malocchio o per dare la sensazione ai convitati di essere controllati nonostante il volto coperto. Come simbolo di protezione, l’occhio era presente anche in altri contesti, come quello della guerra, il cui scopo era difendere dagli attacchi del nemico. Per questo veniva in genere rappresentato sugli scudi.
Retorica, Eros e Magia
L’elemento dello sguardo e dei messaggi da esso veicolati risulta fondamentale anche in alcuni ambiti culturali della società greco-romana. Pensiamo ad esempio alla retorica, in cui il buon oratore doveva essere in grado di tenere gli occhi alti e severi, guardando dritto nelle pupille dei giudici, poiché lo sguardo basso ed esitante era avvertito come sintomo di paura e viltà. Nell’ambito dell’eros, invece, si ricorda la dea “dal dolce sguardo”, il cui nome era Persuasione, o Peitho in greco, e le cui arti erano appunto gli occhi, usati principalmente per la seduzione.
Infine, lo sguardo torna nell’ambito della magia, derivante dal termine latino fascinum o fascinatio, che letteralmente rimanderebbe all’ambito erotico. Tuttavia, in relazione allo sguardo, veniva associata al termine greco baskanìa, come l’idea di guardare storto e quindi di gettare il malocchio. Insomma, una sorta di stregoneria mediata dallo sguardo.
L’occhio si identifica quindi come un oggetto misterioso e terribile, che non deve essere nominato o, che in caso contrario, si nomina per esorcizzarne la paura con la carica apotropaica dell’eufemismo. Il valore dello sguardo, ma stavolta di profilo, è rilevante anche per la sua rappresentazione sul retro delle monete,come segno dell’autorità costituita.
Il potere della mimesis
Parliamo ora di scultura perché le statue degli imperatori romani, al tempo in cui ai comuni cittadini non era possibile accedere al loro cospetto, risultavano efficaci per trasmettere la regalità del potere, molto spesso intrecciata con la dimensione ultraterrena. Per questo gli occhi erano raffigurati dilatati e rivolti verso l’alto, come persi nella contemplazione divina.
Così l’aspetto realistico della raffigurazione dell’occhio diventò essenziale e i romani iniziarono ad inserire nelle orbite dei bronzi antichi occhi composti da materiali vari quali l’avorio o l’onice. La mimesis, infatti, era un mezzo non solo per dar vita alla figura, ma anche per coinvolgere e colpire il contemplante.
La familiarità di uno sguardo
Nel corso dei secoli la rappresentazione degli occhi iniziò a cambiare, oscillando tra un naturalismo verosimile e uno sguardo stereotipato e rigido, come nell’arte bizantina e dell’alto Medioevo. L’uomo comune, però, non guarda il mondo alla stessa maniera del pittore. Il nostro occhio, infatti, osserva ancora come faceva ai primordi, isolando prontamente tutti gli elementi utili dal resto. I pittori, invece, tendono ad isolare i dettagli, a cogliere i colpi di luce su un soggetto, ma soprattutto sono maestri nell’ indagare la forma e nel metterla in relazione con il suo intorno.
Il lavoro del pittore consiste dunque nel rendere visibile ciò che al nostro occhio risulta impercettibile. Ovvero di mostrarlo, in caso l’oggetto da lui indagato risultasse già manifesto, in un modo in cui non avremmo mai saputo vederlo. Ed è proprio per questo che, nel Rinascimento, avviene una riconquista dell’immagine umana altamente espressiva, attraverso l’inserimento nei dipinti del cosiddetto “Dicitore”. Si tratta di una figura, a volte posizionata lateralmente, che coi suoi occhi cerca lo sguardo dello spettatore per coinvolgerlo e per stimolarne una reazione legata alla devozione.
Gli occhi sono poi essenziali per rendere un viso familiare. Recentemente, infatti, statistiche ricavate dallo studio di migliaia di opere hanno dimostrato una scoperta mirabolante. Che l’asse mediano verticale del ritratto passa molto spesso per uno dei due occhi, trasformando così lo sguardo nel punto di maggiore attenzione del quadro.
Il riflesso dell’autenticità
Con Leonardo e Michelangelo, invece, l’occhio dipinto diviene sempre più acuto, coinvolgente e specchio dei moti dell’anima. Lo sguardo si rivolge dunque fiero allo spettatore, coinvolgendolo nella scena, oppure si ritira distante e perturbato. Un’eccezionale strumento psicologico nell’ambito della comunicazione non verbale. Leonardo Da Vinci, in particolare, pone l’accento non solo sui tratti fondamentali di un carattere, ma soprattutto sui pensieri e i sentimenti.
Dà così vita al ritratto naturale, che presenta la persona nella sua piena naturalezza sentimentale e psicologica. Da qui l’idea moderna che la donna e l’uomo non fossero più classificabili come parte integrante di un unico gruppo, bensì come singolo individuo unico nel suo genere.
Il potere intimista ed enigmatico del ritratto
Il ritratto, in particolare, è il modo in cui il pittore riesce a catturare l’immagine eterna della persona, realizzando una sorta di incursione privata, capace di creare empatia tra chi guarda e il soggetto. Per mezzo della forza visiva ed evocativa dello sguardo, molte sue opere diventano snodi affettivi e mentali. L’artista li conosce e prova a restituirli all’osservatore come semplici attimi che diventano eterni.
Ne sono esempi i dipinti relativi ai personaggi della corte sforzesca, come il Musico, la Belle Ferroniére e la Dama con l’ermellino. Emblematico della sua arte è il ritratto della Gioconda, di cui ancora oggi non si conosce con certezza il nome della donna raffigurata e non si comprende appieno il significato del suo sorriso enigmatico. Ma soprattutto non si riesce a concepire il potere del suo sguardo, talmente penetrante da essere denominato “Effetto Monnalisa”, poiché riesce a seguire lo spettatore da qualsiasi angolazione lo si guardi.
Molti hanno smentito questo effetto, riducendolo ad una mera credenza. Tuttavia resta comunque l’idea comune che il magnetismo del suo sguardo sia tale da provocare nello spettatore un forte desiderio di essere seguito e di mettere a nudo il proprio io più profondo.
L’Occhio di Dio
Nell’iconografia cristiana, l’occhio scrutatore mutò nel cosiddetto Occhio della Provvidenza e iniziò ad essere disegnato all’interno di un triangolo equilatero. Questo corrisponde al simbolo geometrico del numero tre, nonché rappresenta la perfezione e il mistero della Trinità.
Generalmente interpretato come l’Occhio di Dio, protettore dell’umanità, è poi entrato a far parte anche dell’iconografia massonica. Quest’ultima gli attribuisce una duplice simbologia: sul piano fisico il Sole, sul piano spirituale il Grande Architetto dell’Universo (Dio). Il triangolo, invece, rappresenta altri due aspetti lungo la sua forma: alla base la Durata e ai lati le Tenebre e la Luce. Si tratta dunque di un monito al fatto, tradotto: ogni pensiero e azione di un massone sono osservati da Dio.
Nel 1782 lo stesso simbolo venne adottato nel rovescio dello Stemma degli Stati Uniti e a oggi è presente anche sulle banconote da un dollaro. Esistono quindi sguardi che bucano la tela, occhi che ti seguono e occhiate che esprimono uno stato d’animo. Dal languido al penetrante, dalla fierezza all’amore, queste portano poi a simulacri, che si dice prendano vita una volta donato loro la vista.
Il vuoto dell’inquietudine
Ma cosa succederebbe se, al contrario, gli occhi rimanessero chiusi o addirittura svuotati, lasciando così l’immagine inanimata e cieca? Edvard Munch lo dimostra nelle sue opere. A partire dal celebre ‘Urlo del 1893, che presenta una figura in primo piano, sintesi visiva dell’angoscia esistenziale dell’uomo, completamente senza occhi. Restano solo inquietanti vuoti orbitali, che riducono quello che poteva essere un viso umano a un macabro teschio urlante.
Munch sottrae così alla nostra vista l’oggetto conturbante, facendoci concentrare allo stesso modo in cui il protagonista del quadro guarda qualcosa di angoscioso. Questa cosiddetta negazione dello sguardo caratterizza anche molti autoritratti del pittore. Ad esempio l’inquietante Autoritratto con l’influenza spagnola del 1919, in cui la figura non ha occhi perché dai capelli al naso si estende una zona di carne nuda e vuota.
Ciò che colpisce di queste opere è vedere come lo sguardo, scomparendo, sia in grado di trasformare e stravolgere completamente l’intero volto. Al suo posto compaiono perciò solo inquietudine e smarrimento. Ma esistono altri autoritratti “ciechi” come quello di Rothko del 1936, di Pierre Bonnard del 1945 e di Pasolini del 1947.
In tutti è evidente come la mancanza dello sguardo sia in grado di rendere meno leggibile l’intero volto, come se il vuoto che resta degli occhi cancellasse gli altri lineamenti. Il soggetto diventa, quindi, un non-soggetto, il ritratto un non- ritratto e il volto un non-volto.
La tragicità dell’essere umano
Gli occhi alienati e senza anima, possono essere ben osservati anche nelle opere di Matisse e Modigliani, nelle sculture di Wildt, e in esponenti dell’espressionismo tedesco come Kirchner e Mueller. In questi lavori, benché affascinanti e di impatto, non c’è comunicazione, né riscatto, né allusione alla speranza o all’elevazione. Le uniche cose che permangono sono constatazione e tragedia fine a sé stessa. C’è poi l’Occhio del grafico olandese Escher, nella cui pupilla si trova un teschio, simbolo esplicito della tragicità del destino umano.
Modigliani, piuttosto, sembrava dipingere gli occhi vuoti e senza le iridi. Li troviamo in Donna in nero del 1917, Ritratto di Jeanne Hébuterne del 1918, Ritratto di donna col cappello del 1918, che dimostrano come l’artista non si sentisse in diritto di scandagliare troppo a fondo l’umanità di chi si accingeva a ritrarre.
Analogamente Matisse, nei suoi ritratti, caratterizzava quasi sempre il viso con l’assenza degli occhi, riducendo la figura umana ai suoi elementi essenziali. Lo si può notare nella Donna in verde con garofano del 1909 e nel Ritratto di Auguste Pellerin del 1917. I lavori di questi due autori, dunque, trasmettono un senso di inquietudine per quei volti che vorrebbero parlare delle loro emozioni e del loro vissuto, ma non sono in grado di farlo.
Tra Fine Ottocento e Inizio Novecento, ci sono poi artisti che hanno preferito guardare sotto l’esteriorità, decidendo di far emergere o celare l’anima più nascosta in sguardi o non sguardi che esprimessero a pieno il proprio sentimento. È attraverso l’intensità degli occhi, infatti, che Van Gogh ha raccontato il suo tormento interiore, ed è con la fissità ipnotica dello sguardo che Nathan svelò la sua ricerca di spiritualità. Fischer, invece, utilizzò il tema dello smarrimento per concentrare negli occhi dipinti la malinconia umana. Fausto Pirandello, ancora, usufruì del tremore dello sguardo per far trasparire la fragilità dell’essere umano.
Si contraddistingue per le sue doti comunicative anche il pittore austriaco Klimt, che nel Bacio dipinse in modo sognante e innamorato gli occhi della donna avvolta dal caldo abbraccio. Le figure femminili sono state spesso protagoniste delle sue opere: eleganti, ammalianti, altezzose, in quanto consapevoli della loro bellezza. Non è un caso che questo venisse reso soprattutto attraverso lo sguardo.
Nel corso della storia dell’arte, gli occhi sono arrivati cautamente a divenire un’interfaccia tra il mondo esterno e l’interiorità della persona, seguendo pienamente il pensiero di Kundera. I ritratti di Evangelina Alciati ne sono un esempio, come quello della Violinista, che non si propone come maschera fisiognomica o come maschera consegnata a una identità intellettuale. Piuttosto come figura affacciata sulla contradittoria pluralità e ambiguità dell’esistere.
L’occhio è la finestra dell’anima, il fulcro della bellezza del volto, il luogo in cui si concentra l’identità di un individuo.
L’enigma e la realtà superiore
Con De Chirico l’occhio riacquisisce una valenza apotropaica e biografica, ricollegandosi agli occhi delle kylix greche. Ne sono esempi: Il saluto dell’amico lontano e L’angelo ebreo. Queste furono ideate da De Chirico durante il suo soggiorno ferrarese e sono emblematiche della pittura metafisica.
Entrambe mostrano un affollamento di oggetti riuniti senza motivo, per indicare l’essenza enigmatica del mondo. Sul biglietto presente nei due dipinti spicca un occhio stilizzato, a rappresentare il cosiddetto demone nascosto delle cose che la metafisica mette a nudo. Il motivo del cartoncino, inoltre, suggerisce un annuncio e richiama la figura del messaggero divino.
Più vicino a De Chirico, nonché sua fonte di ispirazione fu il pittore simbolista francese Odilon Redon, che attribuì un significato particolare all’occhio, trasformandolo in una Mongolfiera. Nella sua opera, datata 1878, Redon recupera l’occhio come simbolo dell’onniscienza divina, ma lo modernizza, associandolo all’iconografia della mongolfiera come mezzo attraverso il quale la mente può raggiungere una realtà superiore.
Ritorna quindi la necessità, stavolta attraverso l’astrazione simbolica, di rendere visibile ciò che nella realtà appare invisibile. Nel ritratto Gli occhi chiusi, del 1890, si ha quindi come l’impressione che la donna stia tenendo gli occhi chiusi proprio per vedere altro. Un universo in cui è possibile scoprire e toccare l’immenso invisibile.
Il chiodo fisso di Dalì
La pittura metafisica di De Chirico fu fonte d’ispirazione anche nel Surrealismo e nel Dadaismo. Nel Surrealismo gli occhi vengono estrapolati dal contesto del volto, sottolineando la loro affinità con quelli tipici delle civiltà più antiche. Nelle opere di Dalì, ad esempio, l’occhio diventa una vera ossessione, uno strumento capace di creare, attraverso il cosiddetto metodo paranoico-critico, un’immagine doppia. Questa descrive la rappresentazione di un oggetto che, senza la minima modificazione figurativa o anatomica, è allo stesso tempo un altro oggetto totalmente differente.
L’occhio diventa anche un mezzo per illustrare gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, come nel dipinto Volto della guerra del 1940, in cui le cavità oculari del teschio aprono la vista su altri teschi che, a loro volta ne mostrano altri all’interno delle cavità oculari, avviando in tal modo un processo visivo senza fine.
In ambito cinematografico, invece, Dalí decide di usare il tema dell’occhio per raccontare i sogni scaturiti dalla psicanalisi. Così, su invito del regista Alfred Hitchcock, realizza una serie di dipinti, tele a colori e disegni preparatori per la scena del sogno del film Spellbound (Io ti salverò). Con la pellicola del 1928 Un chien andalou (Un cane Andaluso), insieme al regista Luis Buñuel, venne realizzata poi una scena emblematica della rivoluzione visiva surrealista.
Quel magico momento che squarcia l’occhio dello spettatore, per fargli vedere, anche a costo di grandi sofferenze, tutto quello che non ha mai visto e forse non ha mai voluto vedere. Dalí arriverà addirittura a illustrare l’immagine dell’occhio invisibile nella scultura Newton Surrealista, realizzando un foro ovale nel volto invisibile di Newton. Un labile ricordo all pensiero di Magritte, secondo cui il viso di una persona è invisibile e quindi irrappresentabile.
Oltre il conformismo
L’occhio ricorrerà anche nelle opere di artisti come Man Ray, Max Ernst e René Magritte, influenzati dalla filosofia di Schopenhauer e dal concetto di apparizione. Secondo questa, l’immagine del sogno suscita desiderio e si presenta al dormiente sia come realtà, sia come modo per superare le possibilità umane.
A partire dall’Oggetto indistruttibile (1923), rifatto poi più volte con titoli differenti, l’artista dada-surrealista Man Ray, decide di accostare l’occhio femminile, ritagliato da una foto in bianco e nero, ad un metronomo. Lo fa quindi oscillare, “fino al limite della sopportazione”, seguendo il ritmo dell’asta. Altre opere dell’artista mostrano poi lo stesso singolo occhio penetrante, ma all’interno di oggetti più disparati, come la Boule de neige e le foto solarizzate.
L’occhio diventa perciò un oggetto che, come diceva Ernst, crea un accostamento “bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”. Ne La roue de la lumière, così il surrealista Ernst decide di rappresentare semplicemente un occhio in bianco e nero, di impatto fortemente espressivo in modo da esprimere a pieno l’ideale di libertà concreta e astratta.
Dalla pareudolia al gioco di specchi
L’occhio, d’altra parte, è un’immagine talmente potente che spesso ne riusciamo a scorgere le forme anche in un paesaggio o negli oggetti a noi familiari, secondo il fenomeno definito pareudolia. Ed è quello che in un certo senso accade quando si osservano le opere del surrealista Magritte, che nel dipinto Le faux miroir ritrae un grande occhio, la cui iride è una finestra circolare su un cielo attraversato da nuvole bianche. L’artista raffigura dunque la pupilla come una sorta di sole nero che domina la scena.
Bisogna poi sottolineare che l’occhio funziona come un sistema di specchi. Infatti, l’immagine inviata al cervello non è che la porzione di mondo che viene riflessa sulla retina. Il cielo di Magritte simboleggia dunque la retina, il riflesso di una realtà esterna, che va a specificare l’esistenza di un mondo interiore situato all’interno dell’essere umano. Magritte cerca, in questo modo, di provocare un’inquietudine che possa diventare stimolo ad una diversa concezione del mondo, oltre il solo e puro conformismo.
Molto più di un senso
In ogni epoca gli occhi non si presentano soltanto come una parte del viso o un dettaglio di un’opera d’arte: sono il punto di contatto tra l’artista, l’opera e l’osservatore. Pensiamo a Giuseppe Penone e del suo lavoro Rovesciare i propri occhi del 1970. Qu indossò delle lenti a contatto che riflettevano lo sguardo dell’osservatore, ma senza una caduta nell’inquietante nichilismo o nel rifiuto alla comunicazione, piuttosto con un semplice movimento verso un campo più sofisticato e mentale. L’artista abdica e lascia che sia l’osservatore a trovare un contenuto, scaricandogli così ogni responsabilità di fraintendimenti o di obiezioni e riserve.
Durante la seconda guerra mondiale, invece molte opere inestimabili dell’Ermitage vennero trasportate in un deposito sui monti Urali, al sicuro dalle invasioni naziste. Questo fece sì che alle pareti di molte sale non restarono altro che cornici vuote. Le guide, però, non interruppero le visite e i cittadini di San Pietroburgo si recarono più numerosi del solito al museo. Seguirono, molto spesso ad occhi chiusi ma con devota attenzione, le dettagliate descrizioni di tele delle quali potevano ammirare soltanto l’ombra sul muro. L’occhio, quindi, non è soltanto l’organo della vista, ma è uno specchio senza il quale l’universo non avrebbe immagine.
Perfino gli psicoanalisti si sono interessati al fenomeno dello sguardo, proprio perché non abbraccia solo una visione disinteressata, ma anche e soprattutto una visione soggettiva del mondo visibile. Questo viene quindi gerarchizzato in rapporto ai nostri interessi e sentimenti. Attraverso lo sguardo, il visibile si dirama in “nostro” e “altro”, sta poi a noi riorganizzarlo a nostro piacimento.
Tutte le arti figurative si sono cimentate con questa espressione, a partire dalla pittura con i ritratti, alla fotografia, che darà la possibilità di cristallizzare un’espressione nel momento esatto in cui si manifesta, per arrivare poi al cosiddetto primo piano cinematografico dell’attore. Quest’ultimo è veicolo delle emozioni proiettate, nonché molto spesso riassunto della stessa trama.
L’occhio nostro coetaneo
Riassumendo, lo sguardo, grazie alla sua funzione fàtica è capace di coinvolgere sia l’intelligenza che il cuore dell’uomo. Molti artisti contemporanei così hanno deciso di riprendere e consolidare questo assunto, a partire da Davide Puma che, attraverso gli occhi di alcuni suoi personaggi, invita l’osservatore a darsi un fine all’incessante ricerca dello sguardo interiore che l’uomo contemporaneo sembra aver smarrito.
C’è poi Alex Garant, o Regina dai Doppi Occhi, pioniera della arte figurativa contemporanea e leader della Glitch Art analogica. Lei è famosa, invece, per dipingere delle figure con quattro occhi, a simboleggiare la dualità umana e la battaglia per l’autodefinizione tra l’Io interiore e la persona esterna.
L’amore viscerale per l’illustrazione ha portato invece l’artista Bra a esaltare, attraverso l’uso di ideogrammi e tracce che richiamano arcaiche scritture, la dolcezza dei volti femminili. Viene così alla luce come questi siano capaci di parlare direttamente all’anima del loro fruitore.
Infine, grazie al designer bielorusso Lesha Limonov e alla sua collezione Masterpieces Never Sleep! è possibile indossare gli sguardi delle più famose opere d’arte, grazie ad una serie di mascherine da notte.
Gli sguardi nel corso dei secoli, dunque, si sono dimostrati la comunicazione ante litteram per eccellenza, in grado di distinguere e di indagare, di riconoscere e di apprezzare. La loro funzione ha determinato la nascita e l’evoluzione della società umana e contribuito a riversare nella vita spirituale dell’uomo una serie di credenze consce ed inconsce, ancora oggi in grado di agire sulla nostra sensibilità.
CREDITS
Medusa, Caravaggio – Immagine 3
Belle Ferronnière- Leonardo da Vinci – Immagine 7
Donna In Nero, Modigliani, Immagine 14