Debbie Millman, esperta di design, traccia una carrellata della storia dei simboli dal “great leap forward”, ossia il momento in cui il cervello umano ha subito una modificazione tale da poter iniziare ad elaborare processi più complicati come la cottura dei cibi, il pensiero astratto, il linguaggio (e non solo), alla nascita del trucco utilizzato dalle popolazioni di circa diecimila anni fa per rendersi migliori agli occhi delle divinità in cui riponevano la loro fede, per arrivare al momento cruciale:
Six thousand years ago, in an effort to unite people, our ancestors began to design telegraphic symbols to represent beliefs and to identify affiliations. These symbols connected like-minded people, (…). These affiliations allowed us to feel safer and more secure in groups, and the sharing created consensus around what the symbols represented. With these marks, you knew where you fit in, both for the people that were in the in crowd and those, as importantly, that were excluded.
Simboli dall’aspetto conciso, semplice, immediato che cercavano di rappresentare credenze e di individuare affiliazioni. Dunque, simboli nati dal basso (bottom-up), da e per le persone, ideati per rendere onore a ciò che si riteneva avesse più potere, per mostrarsi riconoscenti, per proteggersi e per distinguersi. Sorprendente è tuttavia la somiglianza tra questi primi simboli, che la distanza e la diversità delle differenti culture sembrano non aver pregiudicato.
A questo confuso “mucchio” di simboli simili, ma dal diverso significato, mise un freno il Trademarks Registration Act del 1º gennaio 1876, che assegnò un riconoscimento legale ai vari brand sparsi per il mondo. Da quel momento in poi la diffusione di ogni singolo marchio avrebbe costituito un piccolo passo sulla strada per l’era che ci è più familiare: quella del commercio, o meglio, quella del marketing. È curioso, tuttavia, che anche al giorno d’oggi, con la legge a difenderli, i marchi corrano il rischio, o a volte tentino spudoratamente, di somigliarsi tra loro. I casi che Millman prende in esempio sono quelli della swoosh della Nike (la virgoletta, per intenderci), della swastika e della mano di Dio: tutti e tre questi simboli hanno dei gemelli il cui ruolo è quello di rappresentare soggetti, prodotti e temi profondamente diversi dalle loro copie. La swastika, ad esempio, non è stato solamente l’ignobile marchio di Hitler, ma anche un simbolo adottato da aziende come la Coca Cola, dalla American Biscuit Company e dai gruppi scout degli anni Dieci proprio per il fatto che, come ricorda Millman, swastika deriva dalla parola sanscrita “svastika” che paradossalmente indicherebbe buona fortuna, benessere.
La domanda che l’esperta si pone è se, ad oggi, una tale ampiezza di scelta sia un fatto vantaggioso oppure no. Tuttavia, la risposta potrebbe non arrivare: non è la quantità di simboli a dover essere giudicata, ma piuttosto l’uso che di tali ne fa l’uomo. Quello che però è certa di poter dire, è che i marchi delle aziende che quotidianamente investono il mercato, sono senza ombra di dubbio formati sulla maniera top-down: “… every one of our mass-marketed products are what I consider to be top-down brands. They’re still created by people, but they are owned, operated, manufactured, advertised, designed, promoted and distributed by the corporation and pushed down and sold to the consumer for financial gain”. Una sorta di spinta inversa rispetto a quella che aveva fatto sorgere i primi simboli comunitari, che ora, più che simboli, diventano mezzi di vendita, strumenti il cui prestigio è accresciuto dalla pubblicità e dagli altri media e il cui unico scopo è la ricerca del profitto.