Il primo episodio di I May Destroy You si apre con una sequenza eleggibile a fiero manifesto dei procrastinatori. Arabella, una star di Twitter famosa per aver pubblicato da sé un libro sull’esasperazione millennial, ha una notte sola per consegnare la prima bozza del suo primo vero incarico da scrittrice. Rinchiusa nell’ufficio londinese del suo agente, dispone davanti a sé tutto il necessario per darsi una parvenza di ordine mentale, poi apre il computer, fissa le poche righe scritte e inizia a concedersi tutte le pause che le paiono doverose. Musica, marijuana, un’incursione amica, un giro su Google per scoprire come scrivere veloce, e infine un salto al club con il timer pronto a ricordarle di tornare indietro dopo un’ora.
Solo, il salto al club diventa subito notte brava. Arabella beve, balla, si droga e viene drogata. Il mattino dopo, mentre guarda i suoi agenti sfogliare le pagine della bozza (“È molto… astratta” è il responso confuso) col caschetto rosa arruffato e la fronte sanguinante, Arabella sente i timpani ronzare. Quel che è successo è finito in un cassetto buio della sua memoria. A uscirne prepotenti sono solo i flash nebulosi di un uomo che la guarda, la sovrasta, la stupra.
Se I May Destroy You fosse una serie come le altre, a questo punto imboccherebbe una dolorosa ricerca del colpevole con annessa lezione morale sull’abuso. Si dà il caso però che a crearla – e scriverla, co-dirigerla, interpretarla – sia l’attrice e sceneggiatrice anglo-ghanese Michaela Coel, il cui stile narrativo è l’esatto opposto del drammatico moralizzare. Cosicché Arabella non lacrima, non urla, non si dispera. La sua reazione è un semplice e stranito “Uh!”.
In tutto ciò che segue, il cosa sia accaduto diventa presto l’elemento meno rilevante della storia. I May Destroy You è uno show sul come ci si sente e come si fa a riparare se stessi quando ci si scopre distrutti. Si cammina perciò verso il tragico, ma quando la guardia dei sentimenti è sufficientemente bassa, ecco arrivare un colpo ben assestato di scomodo umorismo.
Il talento raro di Machaela Coel sta infatti nel saper mettere insieme il serio al comico laddove il territorio si farebbe per i più estremamente rischioso. Lo aveva già dimostrato in Chewing Gum, la comedy – che le è valsa un Bafta – dove interpretava una ventiquattrenne vergine divisa tra una famiglia iper religiosa e la voglia spasmodica di approcciarsi al sesso. Ma qui la tecnica è decisamente più affinata, autentica, intelligente, profonda. Anche perché I May Destroy You s’ispira a un’esperienza di aggressione sessuale che Coel ha raccontato di aver subito mentre lavorava alla seconda stagione di Chewing Gum.
Non è un caso dunque che la storia si collochi in ambiente artistico. Come del resto non è un caso che il trauma abbia conseguenze ben più complesse di uno schematico rapporto di causa-effetto. Coel lo descrive dall’interno, come una goccia che smuove la miriade di incertezze, ansie e altri traumi rimasti fin lì sepolti. La gravità del fatto non consente più di andare avanti, per riuscirci bisogna prenderne consapevolezza.
Da questo processo Coel ha tratto una sicurezza ammirabile della propria arte: da Netflix, che avrebbe voluto accaparrarsi la storia togliendole parte del controllo creativo, ha rifiutato un’offerta da 1 milione di dollari. (Il progetto è stato poi accolto da BBC e HBO ancor prima che Coel lo scrivesse.) Per Arabella invece il percorso è ben più affannato e confuso. I sintomi di un disturbo post traumatico da stress le invalidano mente e corpo: lei li reprime, li ignora, li sminuisce (“C’è una guerra in Siria” è il mantra per convincersi che non sono poi gran cosa rispetto ai drammi veri del mondo). Rifiutando di compatirsi, tenta di riprendere il controllo della sua vita riportandola all’eccesso di prima con una smania tale da non accorgersi di aver subito un secondo abuso. Che sfilarsi il preservativo senza prima chiedere sia violenza, Arabella lo apprende da un podcast.
C’è chi ha scritto che I May Destroy You è una serie tv sul consenso. La realtà è che fermarsi a questo la sminuisce assai. Da eccellente osservatrice antropologica qual è, nei suoi episodi (12 mezz’ore che ogni tanto si perdono nel superfluo) Coel ha ricostruito tutta l’odiosa complessità di questo mondo in cui ognuno di noi è abusato e abusatore, sfruttato e sfruttatore.
Arabella è egoriferita al punto da non cogliere i traumi che i suoi amici sopprimono per dedicarsi a lei. Sia Kwame (Paapa Essiedu), un istruttore di fitness gay assuefatto a Grindr, sia Terry (Weruche Opia), un’aspirante attrice dalla parvenza risoluta, sono incappati nel frattempo in incontri sessuali degradanti credendoli emancipanti. Entrambi però si chiedono a loro volta quanto siano responsabili dello stupro di Arabella, avendola lasciata sola ai suoi soliti eccessi per dedicarsi a sé. Ma ci sono anche Theo (Gaby French) l’ex compagna di scuola che ha inscenato una violenza per vendetta; Biagio (Marouane Zotti), lo scopamico di Ostia che fa lo spacciatore ma si arrabbia con Arabella perché un po’ se l’è cercata; Zain (Karan Gill), che sulla questione preservativo è più confuso di lei; Susy (Franc Ashman), l’editrice nera che supporta la sua idea di elaborare il trauma in un libro con interesse monetizzante (“Stupro, fantastico!”).
L’abuso in questa serie ha confini labili e sembianze multiformi. Si annida nel sesso, nell’amicizia, nel lavoro, negli ideali; e ciascun personaggio ci si muove con una propensione inconscia – ma con ragioni profonde – a subirlo o incentivarlo, distruggere o autodistruggersi. È un enorme, polveroso casino, insomma. E Michaela Coel lo esplora con un’aggressività comica che sbatacchia di continuo da una parte all’altra della questione. Più o meno come la schizofrenia umorale di Arabella. Che piange sotto le coperte. Si ferma. Si vergogna. Prende il telefono e scatta selfie per la causa social di turno. Poi sorride allo schioccare rinfracante dei cuoricini.