1920. André Breton e Paul Soupault, in I campi magnetici, scrivono di città morte, stazioni vuote e persone infelici.
2020. Il Coronavirus ha svuotato le città e riempito gli ospedali.
Intrappolati nelle gocce d’acqua, non siamo che animali perpetui. Corriamo per le città senza rumore e i manifesti incantati non ci toccano più. A cosa servono questi grandi, fragili entusiasmi, questi salti di gioia aridi? Non ne sappiamo di più delle stelle morte, guardiamo i volti e sospiriamo di piacere. La nostra bocca è più asciutta delle pagine perdute; i nostri occhi girano senza meta, senza speranza. Ci sono solo quei caffè dove ci riuniamo per bere quelle bevande fredde, quei liquori diluiti, e i tavoli sono più appiccicosi dei marciapiedi dove sono cadute le nostre ombre morte del giorno prima. A volte il vento ci circonda con le sue grandi mani fredde e ci lega agli alberi abbattuti dal sole. Tutti noi ridiamo e cantiamo, ma nessuno sente più il suo cuore battere. La febbre ci abbandona. Le meravigliose stazioni non ci ospitano più: i lunghi corridoi ci spaventano. Quindi dobbiamo soffocare di nuovo per vivere questi minuti piatti, questi secoli a brandelli. Amavamo i soli di fine anno, le strette pianure dove i nostri occhi scorrevano come i fiumi impetuosi della nostra infanzia. Ora ci sono solo riflessi in questi boschi ripopolati da animali assurdi, piante conosciute. Le città che non vogliamo più amare sono morte. Guardatevi intorno: non c’è più nulla, se non il cielo e quelle grandi terre desolate che finiremo per odiare. Tocchiamo con le dita quelle tenere stelle che hanno popolato i nostri sogni. Lì ci è stato detto che c’erano valli prodigiose: cavalcate perse per sempre in questo selvaggio West noioso come un museo.
“La glace sans tain”, tratto da “Les Champs magnétiques”
Assurdo come la letteratura, a distanza di secoli, risulti sempre così spaventosamente attuale.
Breve inquadramento dell’opera
I campi magnetici può essere considerata la prima sperimentazione di scrittura automatica a quattro mani: un testo, cioè, realizzato da due autori – Breton e Soupault – che vi lavorano contemporaneamente, seguendo libere associazioni di idee svincolate dalla ragione. Il risultato è un flusso di immagini inconsce, sogni e allucinazioni che sgorgano ininterrottamente sulla pagina. Questi “pensieri in libertà” confluiscono, appunto, in I campi magnetici (1920), raccolta poetica che anticipa la nascita del Surrealismo, consacrata ufficialmente dal Manifesto nel 1924.
I campi magnetici nell’attualità
Il passo sopracitato è tratto dal primo capitolo dell’opera, intitolato “La glace sans tain”. Leggendolo, non è difficile scorgervi dei parallelismi con la realtà attuale, o almeno, la stessa atmosfera affranta e disillusa che si respira oggi, a distanza di cento anni esatti, nel mondo. Breton e Soupault non erano dei veggenti: nelle loro parole non si nascondeva certo una premonizione del futuro e di ciò che sarebbe accaduto un secolo dopo. Semplicemente, le sensazioni trasmesse dall’opera, fotografia del contesto storico ed esistenziale percepito dai due autori, risultano particolarmente affini a quelle che il mondo si trova ad esperire oggi. Ma per una causa assai distante.
Corriamo per le città senza rumore […]. A cosa servono questi grandi, fragili entusiasmi, questi salti di gioia aridi? Non ne sappiamo di più delle stelle morte, guardiamo i volti e sospiriamo di piacere.
Non sembra proprio la descrizione di quei deboli e ormai fugaci entusiasmi, che proviamo ad ogni nuovo Decreto Ministeriale che ci restituisca un piccolo spiraglio di libertà? Quando finalmente ci è consentito, per breve tempo e ad orari ben scaglionati, di rivedere dei volti amici, sospiriamo proprio di piacere.
Tutti noi ridiamo e cantiamo, ma nessuno sente più il suo cuore battere.
Ricordate quelle canzoni urlate a squarciagola dai balconi, a marzo? La popolazione era stata presa alla sprovvista, ogni cosa rappresentava una novità. Mai nessuno, allora, avrebbe immaginato che a distanza di quasi un anno la situazione si sarebbe rivelata ancora più drammatica. La speranza in una rapida vittoria contro il virus inondava le case. Oggi, questa stessa speranza, divenuta ormai flebile, è tenuta viva soltanto dalla grande fiducia riposta nella medicina.
Le meravigliose stazioni non ci ospitano più: i lunghi corridoi ci spaventano.
La circolazione è stata sospesa o fortemente limitata. Le strade sono (o talvolta dovrebbero) essere vuote. Le stazioni non ospitano più coppie di innamorati che si ricongiungono dopo una separazione, perché baci e abbracci non sono più consentiti. È come una proporzionalità inversa: le città si sono svuotate tanto rapidamente quanto i lunghi corridoi degli ospedali si sono saturati.
Ora ci sono solo riflessi in questi boschi ripopolati da animali assurdi, piante conosciute. Le città […] sono morte.
Ad ognuno di noi, nel corso di questi mesi, è capitata sotto gli occhi almeno una delle tante fotografie testimoni della rivincita della natura sul territorio antropizzato. Rintanati gli uomini nelle proprie abitazioni, flora e fauna si sono rapidamente riappropriate del proprio spazio vitale. Almeno loro hanno ripreso a respirare, anche solo per un po’.
Guardatevi intorno: non c’è più nulla, se non il cielo e quelle grandi terre desolate che finiremo per odiare.
Sembra non esserci più nulla, è vero. Il mondo appare come ibernato. Eppure, almeno una cosa resta sicuramente: la speranza che prima o poi ne usciremo. Oggi, dopo mesi di tragedia, il miraggio del vaccino contro il Coronavirus sembra finalmente assumere fisionomia concreta.
La domanda da porsi, a questo punto, non è tanto “Quando ne usciremo?”. Ma come.
CREDITI