La Cina dovrà rispondere della pandemia?

A più di un anno dallo scoppio della pandemia globale dovuta alla diffusione del virus Sars-CoV-19, e della sindrome correlata denominata Covid-19, il futuro dei rapporti tra Cina e resto del mondo appare più che mai incerto. Il Paese, infatti, sconta un grave difetto di credibilità agli occhi dei partner internazionali, in quanto, pur davanti alle accuse di aver avuto gravi responsabilità nella mala gestione della crisi sanitaria, continua a negare le proprie mancanze e a non permettere che venga svolta un’indagine neutrale circa le cause del disastro. Una posizione incompatibile col ruolo centrale che la Cina riveste negli equilibri politici ed economici odierni, che sta causando a Pechino non pochi problemi.

Tutti gli istituti di ricerca e le istituzioni internazionali predicono con certezza ciò che tutti i cittadini provano sulla propria pelle: una crisi umana ed economica senza precedenti nella storia recente. I dati OCSE evidenziano come la disoccupazione nei Paesi avanzati, che soffrono una perdita del 20% del PIL, sia raddoppiata in un solo anno, dal 5,3% del 2019 al 9,7% dell’anno seguente. Il World Economic Forum valuta la perdita economica globale in circa 15.800 miliardi, mentre Europa e Stati Uniti provano ad invertire i trend negativi varando strumenti economici e finanziari innovativi di enormi proporzioni. In questo scenario estremamente difficoltoso la Cina, paese da cui si è sviluppata la pandemia, è in ripresa, forte dell’aumento delle esportazioni, soprattutto di materiale sanitario, e del consumo e turismo interno. Ma ci sono conseguenze economiche dovute al Covid che stanno colpendo l’impero di Xi Jinping?

Innegabilmente la posizione intransigente cinese, che nega qualsiasi colpa di Pechino, non sta aiutando la credibilità internazionale della potenza orientale, tanto che diverse multinazionali hanno preso importanti provvedimenti. Tra le altre, Apple, Samsung, Hasbro e GoPro hanno deciso di spostare la produzione verso il nord America, il Messico e, nella maggior parte, il Sud-Est asiatico. Un danno enorme per la “fabbrica del mondo” che, però, ha raggiunto accordi commerciali con Tesla e BMW per aprire nuovi stabilimenti nel Paese. Rallentano, inoltre, gli investimenti nella nuova via della seta, il progetto numero uno di Pechino. Molti governi stanno valutando attentamente se indebitarsi ancora con il Paese cui imputano la loro crisi sanitaria ed economica.

In questo contesto complesso, Xi Jinping non resta a guardare. Pechino risponde allo scetticismo globale nei suoi confronti militarizzando i confini con l’India e il mar cinese, alzando il livello della repressione sia nei confronti dei propri cittadini che a Hong Kong, mentre i rapporti con Taiwan sono sempre più freddi. Mentre la propaganda interna descrive la gestione sanitaria a Wuhan un grande successo, il governo nega la possibilità all’OMS di inviare emissari che possano accertare cause e dati reali riguardo al virus. Le istituzioni cinesi assicurano che oggi il Paese è Covid-free, eppure i dubbi circa le scelte della gestione sanitaria restano molti e fondati. Il primo contagio registrato a Wuhan è datato 17 novembre 2019, mentre la prima segnalazione di una “strana polmonite” alle autorità internazionali è avvenuta solamente il 31 dicembre. L’OMS ha poi dichiarato l’emergenza sanitaria solamente il 30 gennaio 2020, ben un mese e mezzo dopo la scoperta del primo caso, un ritardo che ha favorito la diffusione globale del virus. Infatti, per tutto questo periodo, diverse migliaia di voli hanno continuato a collegare la Cina con il resto del mondo, Italia compresa, senza che il governo di Pechino, che intanto negoziava un aumento dei voli con paesi ignari della situazione, desse alcun motivo di allarme. Già nel 2002, con la crisi dovuta alla Sars, anch’essa originata nei “wet market”, le comunicazioni cinesi erano state lacunose e poco tempestive, anche se poi il caso riuscì a essere contenuto per lo più entro i confini nazionali.

Oltre alla poca lungimiranza delle istituzioni nazionali cinesi e internazionali, come l’OMS, un altro fattore ha rallentato la diffusione delle notizie e la conseguente prevenzione: la repressione cinese della libertà d’informazione. Secondo He Weifang, giurista dell’Università di Pechino, la mancata diffusione delle notizie e il silenzio cui sono stati costretti i cittadini hanno infatti favorito il diffondersi del contagio a macchia d’olio, proprio ciò che i media e la stampa indipendente avrebbero potuto evitare. Inoltre, recentemente è stata condannata a quattro anni di reclusione la blogger Zhang Zhan, rea di aver documentato la situazione a Wuhan durante le drammatiche settimane di lockdown. I dati inerenti ai contagi e ai decessi in Cina sono stati considerati in più occasioni e da diversi enti, privati e pubblici, inattendibili: la critica interna e la ricerca di una documentazione veritiera della situazione, repressa addirittura con il carcere, non possono che essere un problema per un Paese che non vuole ammettere possibili errori.

Molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti dell’ormai ex-presidente Trump, hanno chiesto riparazioni alla Cina per il danno subito ma, anche ammettendo che sia riscontrabile una responsabilità oggettiva e che questa sia imputabile solamente a Pechino, fatti che solo dopo un’indagine approfondita e un successivo processo possono essere definitivamente assodati, non esistono, oggi, istituzioni sanitarie internazionali con la facoltà di ergersi a tribunali sul modello della Corte internazionale dell’Aia. Potrebbe essere questa l’occasione giusta per stipulare trattati internazionali che consentano questa sindacabilità e rivedere la struttura e il funzionamento degli enti attualmente presenti, come l’OMS, per evitare in futuro disastri simili. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non emetterà mai una risoluzione avversa a Xi Jinping che, forte del suo diritto di veto, è tutelato e intoccabile. Certamente, però, il mondo e i cittadini deceduti in questi mesi meriterebbero di conoscere, quantomeno, come si sono svolti i fatti.

Una domanda sorge, quindi, spontanea: possiamo permetterci di rapportarci con la Cina come se fosse uno stato democratico rispettoso dello stato di diritto, se in realtà si tratta una dittatura monopartitica, seppur con caratteri peculiari? La legittima critica ai metodi del governo, e non del popolo, cinese può aiutarci a ricordare che il partner commerciale di quasi ogni stato sul pianeta non rispetta i diritti umani e i diritti civili, perseguita le minoranze al suo interno, come gli Uiguri, e sta cercando di annullare la libertà ad Hong Kong. Quando si legge di avvenimenti simili ad una lontananza di migliaia di chilometri, tutto sembra più rarefatto, tralasciabile e superfluo. Ma nel momento in cui l’oppressione e la violazione dei diritti umani hanno conseguenze pratiche nella vita personale e quotidiana, ecco che, forse, prestiamo più volentieri attenzione alle sofferenze di chi, mettendoci in guardia, ha gridato aiuto prima di essere costretto al silenzio.

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