Nel marzo scorso, quando la mappa del mondo iniziava a punteggiarsi di pallini di Coronavirus e capivamo che avremmo passato in casa più tempo di quanto credessimo, abbiamo avuto l’impressione che la pandemia ci avrebbe trasformati in tanti piccoli couch potato. Quel tipo di spettatore, cioè, che se ne sta sul divano per un tempo indefinito ad abbuffarsi passivamente di tv. Ma benché per qualcuno l’idea fosse anche allettante, le cose sono andate in maniera piuttosto diversa. Con il protrarsi della reclusione, gli schermi dei nostri dispositivi sempre connessi – qualsiasi essi fossero – sono diventati l’unico modo per interagire con il mondo esterno. Cosicché accanto ai programmi e alle serie tv, l’isolamento ha tramutato un po’ tutta la realtà in televisione. Compresi noi.
Il mondo in uno schermo
A pensarci neanche troppo, la tv è sempre stata un mezzo per accedere alla realtà. Da quando, verso la metà del secolo scorso, i televisori iniziarono a spuntare nei soggiorni, li si è accesi per viaggiare fino a New York o assistere comodi a una partita di calcio. Se si considera poi che nei decenni le persone più normali hanno animato una fetta importante di tv – dai game show ai reality – sembra quasi che la pandemia non abbia portato un cambiamento così notevole.
La differenza tuttavia sta nell’eccezionalità. Pur perdendo un po’ della magia iniziale, la televisione è sempre stata considerata il contenitore di un mondo a parte, capace di far assumere a qualsiasi cosa o persona – anche la più reale – un’aura distaccata e speciale. Tant’è che il finirci dentro anche per sbaglio ha stuzzicato puntuale l’istinto di sbracciarsi per un saluto ai parenti a casa.
Nell’ultimo anno il nostro rapporto con la tv si è invece normalizzato parecchio. “Dal momento che la pandemia ha ridotto i nostri confini alle quattro pareti delle nostre case e ai quattro angoli dei nostri dispositivi,” ha scritto sul «New York Times» il critico televisivo James Poniewozik, “gli schermi sono diventati il nostro condotto principale per far entrare tutto quel che stava all’esterno”.
Per intenderci, attraverso la tv siamo andati al cinema e pure a teatro. Abbiamo visto film come Mulan o Soul in streaming, anziché dalle poltrone di un multisala; e lo stesso è accaduto con molti spettacoli dal vivo come Hamilton, il famoso musical di Broadway disponibile su Disney+.
Attraverso la tv abbiamo fatto anche cose ben più normali. Dalle lezioni di yoga alle riunioni in ufficio, il piccolo schermo si è allineato così tanto alla nostra routine, da diventare il posto principale dove la vita è andata avanti.
Noi come personaggi tv
Già da tempo molte delle nostre esperienze avevano iniziato a spostarsi sugli schermi dei nostri dispositivi. La pandemia però ha senz’altro accelerato questo processo: ormai la parte più consistente delle nostre giornate si svolge in luoghi virtuali, diversi da quelli dove si trova il nostro corpo.
È un po’ come, insomma, se la vita in isolamento ci avesse reso simili ai personaggi delle serie tv. “All’improvviso, la cugina Emily a Pittsburgh esiste per te sullo stesso piano di Emily in Paris,” ha scritto Poniewozik. Ma soprattutto, la nostra presenza e quella degli altri hanno iniziato a dipendere dal fatto che i nostri dispositivi siano accesi o spenti.
Le persone sono diventate episodiche. Uno è presente finché il suo piccolo rettangolo non si chiude e scompare. Spettacolo finito.
Di conseguenza, seguendo lo stesso principio per cui spesso ci plasmiamo su quello che vediamo, abbiamo anche cominciato a comportarci e considerare gli altri come personaggi televisivi.
Alzi la mano, per esempio, chi nei mesi passati in isolamento (ma anche quelli di restrizioni un po’ più elastiche) non si è creato un angolino da organizzare ossessivamente come fosse il set di una serie tv. Individuata la migliore qualità di connessione, abbiamo sistemato luci e librerie, curato capelli e vestiti (almeno all’inizio) per mostrare la versione casalinga migliore di noi.
Alzi due mani invece chi non ha sviluppato anche un certo voyeurismo per l’intimità altrui. Chi, cioè, non si è eclissato almeno per qualche minuto da una videochiamata su Zoom o dal contenuto di un notiziario per passare in rassegna gli arredi, la planimetria e l’eventuale disordine delle case delle persone in collegamento. Se non avete nemmeno una mano in aria è perché, come ha osservato su «Vanity Fair» la critica americana Sonia Saraiya:
Come mai prima, le cose da vedere siamo diventati noi.
Il flusso dell’isolamento
Questo cambiamento non implica comunque che l’isolamento ci abbia portato a smettere di vedere film e serie tv. Anzi, se si considera la crescita esponenziale dei nuovi utenti dei servizi streaming durante la prima ondata di Coronavirus – ossia la scorsa primavera – lo abbiamo fatto anche più del solito.
Semplicemente, come diceva Poniewozik, siamo gradualmente finiti sullo stesso piano e nello stesso spazio delle storie televisive che abbiamo sempre guardato. Per via del legame inscindibile che si è creato con la televisione, gli stessi confini tra generi televisivi si sono sfumati parecchio.
Vedere una serie tv ha iniziato a sembrare sempre meno un’eccezionale distrazione. Dopo ore e ore trascorse in classi virtuali o sale riunioni online, è diventato un più semplice e consequenziale cambio di canale o di scenario. Una ditata su un tasto – o direttamente sullo schermo – ed ecco chiudersi Zoom e aprirsi Netflix. Quante persone, per dire, finita la giornata a vedere i volti dei colleghi in telelavoro sono passate subito a vedere i volti dei colleghi maldestri di The Office?
Qualsiasi cosa sia passata su uno schermo durante l’isolamento è stata inglobata in una specie di flusso unico e continuo. Anche perché, mentre noi ci siamo trasformati sempre più in creature televisive, i personaggi – quelli veri – hanno subito il processo inverso: si sono umanizzati.
I personaggi tv come noi
Fin dall’inizio della pandemia diverse serie tv (i film hanno finestre produttive meno legate all’attualità) hanno iniziato ad assumere sembianze piuttosto vicine al reale. Le ragioni principali sono due: le modifiche alla struttura dei set e dell’organizzazione del lavoro, sottoposti a restrizioni per preservare la sicurezza di cast e troupe e le emozioni del pubblico, che spesso vuole approfondire quello che succede nel suo tempo.
Tra mascherine e distanziamento, attori e personaggi sono parsi subito molto più simili a noi. In un primo momento si sono visti episodi speciali e reunion – come quelli di Parks and Recreation e 30 Rock – mettere insieme i tanti piccoli rettangolini degli interpreti in collegamento dalle loro case. Poi le prime serie tv girate interamente in isolamento hanno iniziato a comparire, come Homemade e Social Distance, entrambe su Netflix (sono solo le prime, ma pare ne seguiranno altre).
Infine, con la ripartenza della stagione televisiva in autunno, parecchie serie hanno inserito nei loro nuovi episodi storie legate alla pandemia. Si tratta soprattutto di quelle in onda su canali generalisti e quindi più abituate a intersecare le proprie trame alla realtà vissuta dagli spettatori. I procedurali ambientati in ospedali, come Grey’s Anatomy e The Good Doctor, si sono focalizzati per intero sull’emergenza COVID-19. La serie tv drammatica This Is Us l’ha accennata mostrando gli effetti dell’isolamento sui suoi personaggi. Charlie Brooker – ideatore di Black Mirror – ne ha tratto invece il falso documentario satirico Death to 2020, intercettando l’idea diffusa che gli ultimi dodici mesi siano stati abbastanza sfortunati.
Le storie legate alla pandemia non si limitano poi all’evento in sé, ma includono anche altre preoccupazioni molto comuni (economiche o affettive). Perciò si comprende ancora meglio perché durante l’isolamento i personaggi tv siano sembrati così simili a noi.
L’isolamento forzato
Nel flusso che ci ha unito ai personaggi recenti si sono infilati comunque anche quelli creati ben prima che la pandemia fosse ipotizzabile. O meglio, ce li abbiamo infilati noi.
Per dirne giusto uno, il mafioso Tony Soprano è stato secondo il «Guardian» uno dei personaggi tv più seguiti durante l’isolamento. Il pubblico più giovane avrebbe rivisto nei suoi attacchi di panico e nelle sue ansie il senso di oppressione dovuto alla reclusione.
È più o meno lo stesso meccanismo per cui nei mesi passati tantissime persone hanno visto serie tv ed episodi focalizzati su altri tipi di isolamento. Larry David, che in vent’anni di Curb Your Enthusiasm ha fatto ridere come misantropo restio al contatto fisico e cultore dell’igienizzante, è diventato un modello autentico. Le maratone di episodi bottiglia, cioè girati in un unico posto e con pochissimi personaggi, sono state molto consigliate durante il lockdown.
C’è però una questione importante da considerare: queste serie tv parlano di isolamento, ma difficilmente sono state girate in condizioni di isolamento. E quando lo sono, derivano da una scelta spesso dettata da velleità artistiche o necessità di risparmio.
Raccontare una storia in isolamento forzato è ben diverso e più complicato, forse non solo per le serie tv. A livello pratico bisogna prestare attenzione ad accorgimenti per cui il pubblico ha sviluppato una certa sensibilità (in un episodio ambientato in piena pandemia un abbraccio potrebbe sembrare strano). A livello emotivo c’è invece tutto un ventaglio di diversi sentimenti da non svilire.
Nessuna serie recente, per quel che si è letto, è riuscita finora a parlare di COVID-19 in maniera ineccepibile. Se l’isolamento è forzato, infatti, c’è molta più ansia di rappresentarlo bene.