Lincoln diceva “No man has a good enough memory to be a successful liar”, e insieme a lui Twain, Nietzsche e tanti altri hanno speso almeno qualche parola riguardo a questa lunga e irrinunciabile tradizione della menzogna. Che si tratti di bugie bianche o il cui fine si riveli meno “alto” e giustificabile, mentire è un atto umano, naturale e soprattutto storico. Come direbbe Pamela Meyer, mentire è “as old as breathing” (un atto antico quanto il respirare).
Perciò, se risulta così naturale farlo, quanto spesso capita di mentire? Ebbene, in una giornata tipo, un individuo potrebbe essere vittima, consapevole o no, di menzogne dalle dieci alle duecento volte. È emerso da alcuni studi, infatti, che tra estranei ci si mente almeno tre volte nei primi minuti di conversazione, che tra colleghi si tende a mentire meno che tra sconosciuti, che una persona dal carattere estroverso è più incline a mentire di una dal carattere introverso, che gli uomini mentono otto volte di più su loro stessi che sugli altri mentre le donne tendono a mentire di più per proteggere gli altri, che nelle coppie sposate ci si mente una volta ogni dieci interazioni, mentre le coppie non sposate si mentono una volta su tre.
Un mondo inaffidabile, dunque. Tuttavia, secondo Pamela Meyer la caratteristica universale delle bugie è il loro essere frutto di un atto cooperativo. “Lying is a cooperative act”: il vero potere delle menzogne diventa reale solamente una volta che coloro a cui si raccontano tali falsità accettano di crederci, o fingono di farlo. Questo accade perché è una consuetudine ormai consolidata quella di non svelare una bugia, in quanto, così facendo, si realizza un gesto di cortesia implicito che permette al bugiardo di salvare la faccia, salvaguardando la propria dignità sociale. L’inganno, quindi, si fa in due e questo implica che sebbene si sia eticamente indotti a rifiutare la pratica del mentire, etichettandola come sbagliata, segretamente e tacitamente la si accetta.
Un altro tratto fondamentale della menzogna è quello che la individua come il ponte tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Chiunque ne costruisca una è certamente consapevole almeno di una cosa: quello che dice di aver fatto è quello che avrebbe realmente dovuto fare. Altrimenti perché mentire? Le bugie, innocenti oppure no, aiutano a creare un’immagine di sé che sia socialmente accettabile. È compito loro coprire quegli istinti e quegli errori che la società ritiene scorretti cercando di “risanarli” agli occhi degli altri e creando una versione migliore, rivista e corretta della realtà.
Più la specie è sviluppata, più la neocorteccia è estesa e quindi maggiore risulta la tendenza della specie stessa all’inganno. Ma allora quali sono i segnali tipici che tradiscono il bugiardo?
La Meyer parte dagli indizi discorsivi: innanzitutto, un individuo che vuole convincere il proprio interlocutore della veridicità di ciò che dice, cercherà di escludere in toto qualsiasi altra versione della storia che differisca dalla propria. Questa tecnica è detta negazione non contrattabile (non-contracted denial) e consiste proprio nel rendere le bugie indiscutibili, facendo guadagnare autenticità alla propria versione e mettendo in discussione quella degli altri. Un mito che va sfatato riguardo ai bugiardi, inoltre, è la loro tendenza a evitare il confronto: per far sì che quello che dicono risulti credibile, ricorrono a un linguaggio più sorvegliato del normale, formale e lontano dalla vaghezza quotidiana, guardano negli occhi, anzi osservano la persona alla quale mentono e aggiungono eccessivi particolari alla loro storia (oversharing). Iniziare il proprio discorso con espressioni del tipo “in tutta onestà” o “ad essere sincero” non si rivela essere ugualmente una mossa astuta poiché sono delle vere e proprie formule cliché a cui i bugiardi ricorrono per sviare chi li ascolta, ma i bravi liespotter lo sanno. Infine, il soggetto o l’oggetto in esame per cui la sincerità o falsità di qualcuno è indagata saranno sempre trattati con distacco da chi mente. Trasferire il rapporto di (presunta) estraneità tra chi mente e ciò su cui mente al piano comunicativo si dimostra una strategia fondamentale per dichiarare la propria sincerità: usare aggettivi, pronomi, apposizioni etc come strumenti utili a creare una lontananza anche linguistica.
Ciò che infine può aiutare a decifrare chi ci si trova davanti è il suo comportamento: chi è onesto cercherà di cooperare, di collaborare nel trovare idee e sosterrà gli altri con entusiasmo e interesse e, prevedibilmente, si mostrerà meno indulgente nei confronti di chi, a differenza sua, si rivelerà un bugiardo e quindi lo giudicherà più severamente. Chi mente durante un’interazione, invece, farcirà la propria storia con dettagli ricercati ed inutili, specialmente raccontandola in ordine cronologico perché è il modo in cui egli stesso l’ha inventata e poi imparata. Sbatterà spesso le ciglia, dirigerà i piedi verso l’uscita e userà qualche oggetto da interporre tra sé e l’interlocutore come barriera, o ancora scuoterà la testa in senso di negazione mentre afferma qualcosa, alzerà le spalle o assumerà involontariamente un’espressione di disprezzo (che ha un connotato di superiorità morale e si caratterizza per una forte asimmetricità, data da un lato della bocca che tende verso l’alto).
Quello che è chiaro è che tutti questi segnali sono solamente questo, segnali. La loro presenza o assenza non è garanzia di sincerità o falsità, ma, semplicemente, fungono da avvertimento, da allarme per coloro che ascoltano. Finché la tecnologia non renderà certa la distinzione tra queste due sfere dai confini sottili e spesso indistinguibili (anche se dei progressi sono già stati fatti), starà alle persone dover scegliere se accettare le bugie, l’inganno, e salvare la faccia o esporsi ricercando la verità.