La diversità, che un tempo veniva bollata come difetto, mancanza od ostacolo, è diventata oggi il simbolo di un’esaltazione fiera di chi si sente sempre più minacciato da un appiattimento sociale che rischia di rendere ciascun individuo indistinguibile dalla massa. Cosa accade, tuttavia, quando questa diversità può influenzare negativamente la vita di un individuo indipendentemente dalla volontà di questo?
L’autismo è “un disturbo del neurosviluppo che in genere si manifesta con precocità, nei primi tre anni di vita”, anche se molte diagnosi arrivano più tardivamente, fino in età adulta. Per diagnosticarlo si sono sempre utilizzati metodi non strumentali, ma basati sull’osservazione comportamentale. Coloro che sono soggetti a tale disturbo possono presentare caratteristiche varie e differenti, ma in generale si potrebbe rilevare una certa frequenza nelle difficoltà di ordine comunicativo, sociale, immaginativo, emotivo, sensoriale, esecutivo ed attentivo. Queste persone, infatti, incontrano molti ostacoli per quanto riguarda la produzione verbale e non verbale e la sua comprensione, faticano a sostenere un’interazione sociale come può essere una conversazione e, inoltre, sviluppano abitudini molto rigide e ripetitive che non possono essere modificate. Si concentrano poi su interessi particolarmente ristretti e non sono sempre in grado di riconoscere le emozioni altrui e regolare il loro comportamento in base ad esse. Stimoli eccessivi provocano in loro reazioni smisurate rispetto alla causa che le ha generate e ciò è dovuto alla loro notevole ipersensibilità. Si dimostrano poco disposti ad adattarsi ai cambiamenti e rivolgono la loro attenzione interamente ad un oggetto per volta.
Ami Klim, ricercatore e scienziato che ha dedicato molti anni della sua carriera allo studio di questo disturbo neurologico, ha teorizzato e sperimentato un nuovo metodo di diagnosi dell’autismo il cui scopo non è quello di “curare” il disturbo in sé, ma piuttosto quello di ridurre le componenti di esso che possono rivelarsi controproducenti per l’individuo che le possiede. I soggetti autistici, non a caso, hanno incredibili capacità intellettive il cui potenziale può essere sfruttato in situazioni che non siano stressanti per la loro mente, ma che rispettino certi criteri.
Klim identifica l’autismo con l’espressione “disruption of survival skills”: un’interruzione delle capacità di sopravvivenza, vale a dire che i soggetti autistici si differenziano da quelli che non lo sono per il fatto che i secondi rispondono al concetto secondo cui il neonato, abituato a trovarsi in situazioni di pericolo nel momento della nascita, tende a percepire diversi stimoli contemporaneamente, siano questi visivi, tattili, uditivi, e a rivolgere quindi la propria attenzione a diverse situazioni che accadono intorno a lui. Nel caso di un neonato autistico questo non avviene: la sua attenzione si focalizza su un certo oggetto e non si distoglie da esso per diverso tempo.
Ciò che fortemente caratterizza la distinzione tra il tipo autistico e non, è che se al secondo tipo viene spontaneo, come istinto naturale, concentrarsi sulla sfera sociale delle persone con tutto ciò che concerne le relazioni tra di esse e servendosi del loro sguardo come strumento primario per la decodifica dell’interesse individuale, il primo tipo è decisamente più interessato alle cose e a come queste sono fatte, come funzionano. È qui che la dicotomia persone-oggetti perde una parte significativa della sua opposizione e l’ambito individuale guadagna importanza a scapito di quello interazionale.
Ampiamente diffuso, l’autismo è riscontrabile in un individuo su cento e comincia con l’inizio della vita per poi rafforzarsi lungo lo sviluppo. Ma se esistesse un modo per diagnosticare il disturbo prima che questo si radicalizzi? Ebbene Klim potrebbe averlo trovato. Da diverso tempo è stato utilizzato un innovativo sistema di monitoraggio oculare il cui unico scopo è investigare su che cosa esattamente si posa l’attenzione di questi bambini. Quale modo migliore per capire i loro meccanismi, se non quello di vedere come attraverso i loro occhi?
Quello che è emerso da questo eccezionale metodo di ricerca è proprio la differenza di focus che avviene tra bambini autistici e non: i secondi, se messi di fronte ad una foto che mostra loro un’interazione sociale, tendono a concentrarsi sui volti e sulle espressioni delle persone presenti, sui loro sguardi, per capire che cosa stia capitando in quel contesto, per categorizzare delle relazioni. I primi, invece, non mostrano alcun interesse verso la sfera delle relazioni sociali e osservano attentamente gli oggetti e le loro caratteristiche.
A questo punto ci si potrebbe chiedere se l’autismo non sia, oltre che positivo in diversi casi, addirittura necessario. Lungo la strada verso il progresso, infatti, la spinta al miglioramento risiede proprio nella possibilità di ricorrere a risorse di vario tipo che favoriscano le dinamiche conoscitive e permettano di superare i punti di stallo. È per questa ragione che si può affermare con totale sicurezza che essere differenti significa anche, e soprattutto, fare la differenza.