Se l’amore è un mistero, ciò non impedisce che bastino semplicemente due parole per esprimerlo: “ti”, “amo”. Tuttavia, questa leggera profondità, questa complessa superficialità, questa assurda chiarezza, non permetterebbe a nessuno di concludere che l’amore “sia solo due parole”, che esso sia ben contenuto e conservato in una formula. Certo, “ti amo” suona come un rimando, un’allusione, una scorciatoia per qualcosa di più grande. Le “paroline magiche” ci rimettono a una costellazione di significati inconciliabili, ci espongono improvvisamente alle contraddizioni del sentimento e all’impotenza della ragione. Un’infinita, irregolare e incontrollabile potenza.
Ma proprio per questo – come una ricetta non è una pietanza, una mappa non è una strada e una sceneggiatura non è un film – non possiamo immaginare che il valore che, nelle occasioni più significative della nostra vita, diamo alle parole “ti amo”, sia di per se stesso bastevole per descrivere ciò che sta accadendo in quel momento. Che sì, non potrebbe che accadere senza quelle parole. Ma sono davvero quelle parole ciò che ci conquista? Ciò che ha valore?
“Ti amo” è una categoria, una regolarità della lingua parlata che viene estratta dalla fiumana del sentimento a valore strettamente esemplificativo, pur se di per se’ insufficiente.
Al cuore della bellezza
E così è per la parola (o l’esclamazione) “bello”. Al cuore della bellezza c’è una necessaria indeterminatezza, perché se così non fosse ci troveremmo dinanzi a qualcosa di puramente “piacevole” (che momentaneamente sollecita i miei sensi) o di pienamente comprensibile. Le categorie contengono gli oggetti e canalizzano gli impulsi. Ma la bellezza – quella suscitata dalla natura, dall’arte o dall’amore stesso – è di per se’ non-comprensibile, non-concettualizzabile, non racchiudibile. Al principio della bellezza c’è un “non so che”, un mistero che allo stesso tempo non è né crudamente corporeo (una droga, un’eiaculazione) né distaccatamente concettuale (una formula matematica, un ordine militare). E pure se c’è bellezza in un’eiaculazione o in un ordine militare, questa non sta nella sensibilità o nella concettualità dell’esperienza, ma in qualche presenza indiretta di mistero e vaghezza.
Queste intuizioni sulla bellezza, dovute innanzitutto a Immanuel Kant, sono in realtà facilmente riscontrabili in ogni esperienza quotidiana di genuino gusto estetico (non mera sensibilità, non mere pulsioni, stimoli e orgasmi). In questo articolo vogliamo sostenere che alla recente attrattiva generata dall’armocromia (e quindi, specifichiamolo, non l’armocromia in sé) è totalmente sconosciuta, persino nemica, ogni concezione profonda e significativa di bellezza e di buon gusto.
L’armocromia
L’armocromia è essenzialmente una categorizzazione della bellezza aspettuale, un modo per concettualizzare – e quindi rendere riconoscibile e identificabile – la nostra apparenza fisica e le sue qualità estetiche. Oltre che presagire l’ovvia obbiezione secondo cui nessun mistero (“non so che”), come quello della bellezza, può essere preservato se sottoposto ad una categorizzazione, che è per se’ stessa una semplificazione, astrazione e perdita di complessità; notiamo come le pretese riduzioniste di questa “scienza” entrino subito in contraddizione con loro stesse.
Infatti, per come essa viene proclamata da influencer e consulenti d’immagine – tra i quali spicca il nome di tale Rossella Migliaccio – l’armocromia classifica gli aspetti in quattro “stagioni” e sedici sottogruppi. Ciò mostra fin da subito come il termine “armonia” sia usato fin dal principio in maniera impropria. L’armonia è proporzione, e in quanto tale relativa ad una soggettività non generalizzabile del caso in questione.
Le intersezioni di “stagioni”, sottotoni, valori e intensità formano una tavoletta periodica estremamente scarna dal punto di vista estetico e misera da quello specificamente coloristico, e dalla base di essa emergerebbero delle ormai ben note “palette” cromatiche. All’accusa di generalizzazione e pressappochismo, in divulgatore della dottrina potrebbe rispondere che è proprio la palette a garantire ancora la specificità distintiva di ogni individuo.
Partendo dall’assunto che non è così, dal momento che non sarà certo l’addizione di tre o quattro elementi qualitativi ad esaurire l’espressività cromatica, notiamo come la grossolanità estetica di un giudizio di gusto basato su una stracciata paletta bidimensionale risulti persino “offensiva” nei confronti della nostra libera, organica e poliforme capacità umana di percepire la bellezza. Faremo qualche semplice riferimento filosofico, così da poter delucidare il grado di questa “offesa”, di questa imbarazzante pretesa commerciale di omologare attraverso il feticcio della “libera” espressione.
Un soggettivo sentimento di piacere
Abbiamo già visto come, per Kant, il giudizio estetico su qualcosa di “bello” non sia un effettivo giudizio sull’oggetto in questione (infatti, non posso “pretendere” che qualcosa che consideri bello lo sia oggettivamente per qualcun altro, mentre posso “pretendere” che egli riconosca che 2+2=4), ma un giudizio legato ad un soggettivo sentimento di piacere, giudizio “nel quale il soggetto sente se stesso secondo il modo in cui è affetto dalla rappresentazione [di qualcosa in quanto bello]”. Esso è tuttavia un giudizio a tutti gli effetti, poiché non è semplicemente una sensazione, una passione, ma una posizione che sarei pronto a difendere argomentativamente di fronte a chiunque altro giudichi quel qualcosa brutto (mentre, nel caso di una mera sensazione, come quella del solletico, non posso convincere nessun altro della sua piacevolezza, se questi ne è infastidito).
Trattandosi a tutti gli effetti di un giudizio, e non di una semplice preferenza o di un’inclinazione fisica, il bello è l’oggetto di un “compiacimento libero”, autonomo, singolare, non di un bisogno, di un vizio o di una pulsione che ci “attira”. Noi non siamo banalmente (almeno non primariamente) “attirati” dal bello, ma vi riflettiamo, lo maturiamo, lo costruiamo in maniera originale e personale attraverso la nostra immaginazione e il nostro intelletto. Il bello ravviva la nostra mente, non la spegne, non la distrae, ma le fa raggiungere uno stato di interiorità tale che è il maggiore stato di profondità a cui la nostra vita cosciente può approdare.
Gli automatismi, le abitudini, le distrazioni, le categorie esterne, le regole imposte, i condizionamenti; tutto ciò viene soggiogato da un unico e fugace momento di solidità spirituale, di consapevolezza interiore… di pieno e sincero possesso di me stesso in ciò che di più umano mi caratterizzi. Il giudizio estetico non deriva da un incontrollabile oggetto delle passioni, non è una reazione patologica, poiché esso è piuttosto un’attività, l’esercizio di una specifica ed intensa attenzione, e ciò che nella bellezza risulta incontrollabile (inspiegabile, irriducibile, “misterioso”) non è lo scossone causato da un impulso o da uno stimolo, poiché qui saremmo nell’ambito dell’animalità.
Si tratta piuttosto di un “non so che” eminentemente umano, spirituale: il ravvivarsi delle nostre facoltà mentali (la ragione, l’immaginazione…), che se normalmente si appigliano a concetti e sensazioni eterodirette, ora “giocano liberamente” tra loro, svincolate da ogni concetto specifico, vagando liberamente tra le idee, generando associazioni singolari e irripetibili, suscitando un piacere derivato dall’esercizio della nostra piena umanità, e quindi della nostra capacità di portare al massimo grado di indipendenza l’intelligenza e il sentimento.
Tutto ciò nell’occasione dello sguardo, della percezione di qualcosa di bello: esso non è qualcosa che solamente ci “colpisce”, ma qualcosa che “ci dà tanto da pensare” e da provare, senza mai tuttavia approvare a qualcosa di determinato, ad un concetto specifico.
Da ciò si intende come un “ideale della bellezza”, una “regola oggettiva del gusto”, sia essa categorica o più furbescamente poliforme e pseudo-inclusiva, non sia possibile
Ricercare un principio del gusto, che desse il criterio universale del bello mediante concetti determinati, è uno sforzo infruttuoso, dato che ciò che viene ricercato è impossibile e contraddittorio in se stesso.
Il gusto deve essere una facoltà che ognuno esercita da sé.
Tutto ciò che è rigidamente conforme a regole (che si avvicina alla conformità matematica a regole) ha in se’ qualcosa che è contrario al gusto: ciò non concede che ci si trattenga a lungo nel guardarlo […] Al contrario ciò con cui l’immaginazione può giocare in modo spontaneo e conforme a uno scopo è per noi sempre nuovo, e non ci si stanca mai della sua vista.
Il gusto semplicemente avanza un’esigenza di autonomia.
Possiamo giungere dunque a rispondere alla domanda: cosa c’è di profondamente antiestetico nell’armocromia?
Ripetiamo intanto che parlando di “armocromia” non stiamo parlando della disciplina dell’armocromia in sé, ma delle tendenze “social” a cui l’armocromia sta dando vita, forse per colpa di una comunicazione superficiale o di una debolezza applicativa della disciplina stessa.
Parliamo, in casi estremi, di ragazze e ragazzi che “rinnovano il loro armadio” – vale a dire: buttano via capi d’abbigliamento ancora perfettamente utilizzabili – sulla base di ciò che è “dentro” o “fuori” dalla loro palette cromatica. Sulla base di caratterizzazioni allo stesso tempo vacue e categoriche come “fluo”, “soft” o “bright”, persone decidono cosa gli sta meglio e cosa peggio, si autodefiniscono “autunno warm”, “estate soft”, “estate cool” o “winter deep”. Ciò che evidentemente è un ottuso e grossolano inscatolamento, alla sua origine è una banale perdita di autonomia persino in ciò che c’è di più felicemente quotidiano e auto-espressivo come “giocare liberamente” con i propri capi d’abbigliamento, senza dover essere pilotati dall’esterno anche in questa attività. Un set di categorie cromatiche che dovrebbe “aiutarti ad esprimerti al meglio” è, di per se’ – lo si sentirà – un amaro controsenso.
I colori
“Bello” non è ciò che “ci si adatta”, e, addirittura, nemmeno ciò che “ci sta bene”. L’espressività cromatica, la radiosità, la libertà di giocare con le luci, non è come una taglia di scarpe, non ce n’è una giusta ed una sbagliata. I colori, di per se’, non sono oggetti, “cose” obiettivamente esistenti, ma qualità. I colori non esistono alla “terza persona singolare”, ma solo e unicamente alla “prima persona”. Entrambi diremo “rosso”, ma io non potrò mai sapere se il rosso che io vedo non sia come il tuo blu, se ciò su cui entrambi siamo d’accordo non sia invece, tra di noi, qualcosa di radicalmente diverso. E tutto ciò essenzialmente per due motivi, per due caratteristiche del colore:
- I colori sono essenzialmente oggetti della coscienza, vivono solo della nostra capacità personale di evocarli, e non c’è sostrato luminoso o configurazione ottica che possa spiegare “obbiettivamente”, “empiricamente” cosa sia il colore “ai nostri occhi”, per come ci appare. Mentre, infatti, un meteorite che piomba sulla strada esiste tanto per me quanto per chi mi sta accanto, la mia sensazione del rosso esiste solo per me, perché nessuno potrà mai sostituirmi nella mia. La qualità dei colori non risiede nel mondo, ma nella coscienza individuale.
- I colori non sono blocchi discontinui, non sono entità discrete, ma eventuali risultanti di flussi, continuità, mari indifferenziati, che non distinguono tra goccia e goccia. Una volta estratta, la goccia, è una goccia in sé, singola e originale. I colori non rispondono affatto alla misura di categorie quantitative, perché, non essendo oggettivi, non c’è nulla da misurare: sarebbe come tentare di pesare la coscienza, il mio “sentirmi io”. Le espressioni cromatiche rispondono piuttosto alla metafora della sinfonia, di un movimento complesso che non basta ridurre alla sua composizione fisica per coglierlo, dal momento che può essere compreso autenticamente solo nella sua totalità, nella sua presentazione al sentimento.
Vista da questa prospettiva, la pretesa di una armocromia che non sia l’armonia di ciascuno nel suo specifico, ma l’applicazione dall’alto di criteri pseudo-estetici superficiali, non risponde alle ambizioni di questa stessa disciplina, poiché non v’è armonia, ma solo delle considerazioni misurative a posteriori che, per qualche ingiustificata ragione, dovrebbero retro-applicarsi sulla nostra (ormai non più così libera) scelta estetica, che è quanto di più “a priori” vi sia. Dando alle cose il nome che si meritano, non esiste palette dell’armocromia che sia in grado di preservare la nostra “singolarità”, poiché il principio stesso di questo strumento non fa che “particolarizzare” nei casi specifici una regola generale.
Liberarsi da ogni regola generale
Aberrante, dal momento che la facoltà estetica umana è l’esatto inverso: trovare nel particolare l’occasione di risalire all’universale, liberarsi da ogni regola generale e proiettarsi ancora più in là, nell’assoluto, pur nella piena concretezza del mio piccolo punto nel mondo, nella pienezza di una singola e occasionale esperienza.
Tutti gli individui sono singolari, ma alcune strategie di marketing hanno buon gioco nel farci credere che invece non siamo che casi “particolari” di schemi generali, impersonali. Non siamo più entità individuali, ma “dividuali”, divisi tra le app, le identità digitali, le statistiche e le tendenze comportamentali che, tutte accuratamente misurate, danno l’occasione a chi ne è in grado di guadagnare sul nostro essere dissociati, alienati sugli oggetti che possediamo, sulla musica che ascoltiamo, sulle ricerche che svolgiamo, sulle immagini che conserviamo, sulla quantità di tempo passata a guardare una foto o un post. Esseri privi di singolarità, di assoluta pienezza di spirito, perché privi di quell’indeterminatezza, di quel “non so che” inspiegabile e immisurabile che caratterizza la bellezza, il gioco, le libere scelte e l’amore.
Per come sta affiorando tra gli hashtag di Instagram e sui blog sponsorizzati degli/delle influencer “in palette”, l’armocromia non è nulla di diverso, per esempio, dal “minimalismo”: con la scusa di avere un armadio o una casa minimal si arriva (tra casi più o meno estremi) a comprare, consumare e soprattutto a buttare via ancora più cose di quanto non si facesse prima, portandosi su un livello di consumismo e alienazione sulla merce che molto contraddice la parola “minimalismo”. Stesso vale per la pretesa di farsi suggerire dall’esterno un’armonia che non sia realmente propria, indeterminatamente e casualmente propria, anche se magari “ci sta male”.
L’armonia è autonomia. Per esprimerla vale molto di più una libera scelta, magari pulsionale ed incosciente, di un supposto criterio, perché la libertà e la piena soggettività non stanno nei criteri. Abbiamo ridotto a criteri il mercato, la politica, la società, l’arte e persino i diritti sociali. Per ritornare a noi stessi, preserviamo innanzitutto la bellezza, nella sua “inappropriata”, indeterminabile e incosciente spontaneità.
Non basterà scrivere “ti amo” e parlare di fiori e gioielli per scrivere Le affinità elettive. La bellezza del romanzo d’amore, così come quella dell’amore che viviamo, sta proprio in ciò che di essa non sappiamo. Sembrerà una banalità, ma l’amore sta nell’infinito mistero che esula da quella formula. Ci dovremmo guardare da chi dice “ti amo” senza intenderlo come da chi ci suggerisce di apparire “adeguatamente” (i.e. adeguandoci) senza esprimerci nella nostra più intima inappropriatezza.
I. Kant, Critica della facoltà di Giudizio, Einaudi, Torino, 1999