Il cavallo di Torino: il mondo è fott*to

Il cavallo di Torino (2011) di Béla Tarr è un capolavoro di espressione stilistica e significato filosofico che è già riconoscibile come una delle pellicole più rappresentative del nostro secolo.

La sottile complessità cinematografica, delineata innanzitutto dagli sfuggevoli, raffinati e perfetti movimenti di macchina, si associa elegantemente a una potenza riflessiva senza paragoni nel cinema (industriale o indipendente) contemporaneo. Nella storia del cinema, si può risalire unicamente al genio spirituale di De Sica, Antonioni, Godard o Truffaut per azzardare un paragone altrettanto elevato e rivoluzionario in merito al tentativo di accordare armoniosamente il piano stilistico e quello sensibile/intellettuale, nel tentativo di render conto coraggiosamente e immodestamente del problema esistenziale del tempo, e in particolare della sua fine.  

Il film

Il film dura 146 minuti e consiste in sole 30 riprese, trenta piani-sequenza. È ormai un luogo comune, nella letteratura critica, che le lunghe riprese senza stacco e lo scarso lavoro di montaggio siano il tratto stilistico più distintivo e peculiare del cinema di Béla Tarr, che ragiona artisticamente al di là delle categorie hollywoodiane del montaggio caotico, delle riprese soffocate sul nascere, della narrazione scattosa e della frammentazione visiva.

Laddove un polpettone della Marvel racconterebbe l’apocalisse con i mezzi di una narrazione sempre esplicita, pornografica, comportamentista e priva di ogni possibile rimando all’indeterminatezza e alla lentezza riflessiva, Il cavallo di Torino racconta innanzitutto un’apocalisse interiore, non privata, non “esistenziale”, ma effettiva pur se nella sua spiritualità. Ma neanche questo basta, perché Tarr non si limita all’indagine psichica e a un’estetica introspettiva. Anzi, egli bandisce l’intimo, il cosciente, il meditativo, pur parlando di interiorità.

La storia del cavallo di Torino

Il film comincia con uno sfondo nero e la voce di Tarr che racconta un famoso episodio, forse leggendario, della vita di Nietzsche. Egli, camminando per le strade di Torino, vide un cocchiere malmenare il suo cavallo, e in uno slancio di profonda compartecipazione, corse verso l’animale e, piangendo, lo abbracciò. Dopo aver proferito le sue ultime parole, “Mutter, ich bin dumm” (“madre, sono stupido”), Nietzsche crollò in un mutismo assoluto che, insieme alla sua proverbiale follia, durò fino al giorno della sua morte.

Così compare sulla scena un cavallo, che nel terribile vento fatuo di una campagna indeterminata del centro Europa guida una carrozza con a bordo un vecchio uomo barbuto. Entrambi, animale e padrone, donano un volto al crudo e secco bianco e nero del film, essendo entrambi non semplicemente stanchi… ma passivi ed estremamente consapevoli di questa passività nel loro sguardo. I vestiti vecchi e logori dell’uomo riprendono il manto selvaggio e non curato del cavallo. E i due percorrono – durante un lungo ed elegante piano-sequenza – la strada che porta verso la casa del cocchiere. Il terribile vento, solo visibile per la prima parte della scena, diventa progressivamente udibile, fino a divenire assordante, verso la conclusione della ripresa. Prima della quale ascoltiamo la tanto splendida quanto ridondante e spettrale colonna sonora di Mihali Vig.

Il vero protagonista della scena è la macchina da presa, che percorre freneticamente l’ambiente e il cammino del carro senza mai concentrarsi del tutto sul soggetto particolare (il cavallo) e girovagando piuttosto nella febbrile ricerca di “qualcosa”. E sembra come se quel qualcosa fosse lo stesso spazio-tempo, il luogo e la durata pienamente oggettivi, la pura esternalità di un dove e di un quando in qualche modo assoluti, mistici, come se infiniti, eterni e non-temporali.

Del filosofo tedesco rimane solo uno spirito aleggiante familiare

In un’intervista, Béla Tarr chiarisce qualcosa che non è così evidente: il cavallo che vediamo è lo stesso protagonista della vicenda di Nietzsche, il quale, tuttavia, non fa mai la sua comparsa nella narrazione e non ha nulla a che vedere con la “storia” (dopo capiremo il perché delle virgolette) che viene rappresentata. Del filosofo tedesco – e ciò è evidente – rimane solo uno spirito aleggiante familiare al lettore dello Zarathustra o dell’Ecce Homo. Il tetro ritornello di Vig rimanda, in un non so che di significativo, ad un sentimento di “eterno ritorno”. Il destino della fine del mondo, la gabbia della volontà nella forzosa monotonia, così come l’aspirazione alla sostituzione della nostra epoca, sono lo spirito nietzschano di un film che, al di là della dichiarazione del titolo e del prologo, nulla ha a che vedere con Nietzsche. Se non lo spunto, il suggerimento e l’atmosfera.

Da quando il cavallo arriva nella solitaria e diroccata catapecchia di campagna, comincia la monotona vicenda – meglio faremmo a chiamarla semplicemente “routine”, una noiosa e deprimente routine. Routine che coinvolge il cocchiere e la sua figlia apparentemente trentenne. I due, che trascorrono il film in un quasi completo mutismo (in qualche modo richiamante quello di Nietzsche) trascorrono inconsapevolmente quelli che apprendiamo essere, grazie a degli indizi forniti da Tarr, gli ultimi sei giorni del mondo, i sei giorni dell’apocalisse.

L’apocalisse

Si tratta di una fine che arriva attraverso un vento minaccioso, che progressivamente diventa più violento e finisce per distruggere il paesaggio e spegnere le luci, compresa quella del Sole.

Nell’unica parte parlata del film, il monologo di un vicino di casa in visita a metà film, egli annuncia con parole profetiche ma incomprensibili, ellittiche e deliranti, profonde e sconclusionate, che la nostra epoca sta finendo per colpa del suo demerito, della sua colpa, del suo imperdonabile peccato – e che il Giudizio si sta abbattendo sul mondo. Il vecchio barbuto, in quella che forse è la frase più lunga che gli sentiamo proferire nel film, con insipida passività si limita a rispondere: “Smettila! Sono stupidaggini“.

Il padre e la figlia trascorrono sei giorni tutti uguali, tutti costantemente ripresi da una telecamera che raramente si stacca, raramente si serve del montaggio, e che è in incessante e perenne movimento. Essa non si ferma mai, pur se non fa che riprendere l’estrema staticità ripetitiva della routine dei due. Essi si limitano a mangiare famelicamente patate bollite (finendo pure per perdere progressivamente la fame), a dormire, a svolgere mansioni domestiche, a guardare nel vuoto e al di fuori dell’unica finestra. Al di là di essa avviene l’apocalisse, che ovviamente li riguarda ma mai del tutto, mai sentitamente.

Dalla finestra entra, insieme ai fischi del vento e alle immagini di annichilimento, la vuota immagine atemporale di una campagna desolata, luogo maledetto dalla fine a rappresentanza di tutto il male del mondo. Un’atemporalità così spirituale – che entra dalla finestra, che regna tra i gesti monotoni dei due – da fondare quasi una nuova temporalità, un tempo della fine, un tempo alla fine del tempo e della storia.

Dio non ha un piano

Ma a questa apocalisse manca l’aspetto fondamentale di ogni narrazione della fine conosciuta dalla nostra tradizione. Questa fine è senza speranza. Non esiste attesa escatologica, non esiste redenzione messianica. Lo spettatore rimane in attesa di una realizzazione, di un senso, di qualcosa a cui questa pesante vuotezza di felicità “dovrà pure portare!”. E invece non arriva nulla, e tutto si consuma, senza tensioni e realizzazioni, in una paludante attesa della fine.

Dio non ha un piano per noi.

Il cavallo di Torino è l’ultima opera di Béla Tarr, su dichiarazione del regista previa alla registrazione stessa del film. Si tratta del suo testamento cinematografico, nel quale egli si sente di aver portato in qualche modo a compimento il suo proposito:

Ciò che volevo mostrare nei miei film erano sempre le persone.

 

Nei miei film, voglio essere più vicino alla vita che al cinema.

A detta del regista – uno dei più grandi registi del nostro tempo, se non il più originale – più egli è andato vicino alle persone, più si è accorto che i problemi delle persone non sono sociali, politici, nemmeno ontologici.

I loro problemi sono cosmici. «Tutto il fottuto mondo è finito».


Fonti:

Il cavallo di Torino, Béla Tarr, 2011

Immagini:

Immagine 1

Copertina

 

 

 

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