Di donne come Petra Delicato la tv ne ha ormai conosciute a manciate: ispettrici ruvide, accuratamente trasandate, capaci di coltivare relazioni quanto una mantide ed empatiche al pari di un sociopatico. Per questo, vedendo la serie tv di cui è eponima protagonista, c’è chi ha detto che sì, la resa è caruccia, ma per niente innovativa. Il fatto però è che Petra Delicato esiste da un po’ prima che i televisori si affollassero di poliziotte chiamate a smentire il vecchio retaggio per cui, se a investigare è una donna, il pathos si scioglie nel rassicurante e di sangue se ne versa pochino.
Petra Delicado (sì, con la “d”) è nata poco meno di venticinque anni fa nella testa della giallista spagnola Alicia Giménez Bartlett. A fornirle l’ispirazione fu il medico legale con fiuto investigativo Kay Scarpetta, ideata dalla scrittrice americana Patricia Cornwell. Finora le sue indagini hanno dato vita a dodici romanzi. Sky e Cattleya ne hanno italianizzato i primi quattro, costruendo su ciascuno un episodio della prima stagione di Petra, diretta da Maria Sole Tognazzi.
Quello di apertura, Riti di morte, ha a che fare con l’inesperienza della sua protagonista. Perché nonostante i quarant’anni, il suo percorso iniziato in uno studio legale si è rintanato negli archivi sotterranei di una centrale di polizia (“Avvocata”, la chiama il capo celando irrisione dietro il rispetto della desinenza femminista). Cosicché Petra non sa nemmeno cosa si dovrebbe dire quando si ferma un sospettato. Il massimo dell’azione a cui si sia mai concessa di partecipare è quella scritta sui verbali che scannerizza e sui manuali dell’FBI fitti di casi che da questa parte dell’oceano sembrano solo vicende da sceneggiatura.
Solo, come svolta narrativa comanda, uno di quei casi si verifica e tocca proprio a lei risolverlo. Ci sono uno stupratore seriale che marchia la pelle delle sue vittime, un trio di ragazzine piuttosto ostili a collaborare e giornalisti che pretendono risposte intelligenti a domande futili. Ora, gli spettatori dell’epoca d’oro della serialità non si slogheranno certo le mascelle per lo stupore. Ma qui a domandare attenzione non è il giallo né tantomeno l’affanno di Petra, i suoi passi falsi, le intuizioni, gli intermezzi d’attrito con i due ex mariti e i tentativi di confidenza con il vice ispettore Monte (Andrea Pennacchi), il partner ossequioso e bonario che le è stato affidato.
Qui a domandare attenzione è la trasposizione, il modo in cui il mondo di Petra Delicado è diventato quello di Petra Delicato.
I libri di Alicia Giménez Bartlett raccontano la Barcellona portuale, periferica, nei cui vicoli c’è tutto il materiale umano per parlare di squallore, miseria, disagio sociale, violenza, delinquenza. Di rado Bartlett si perde nella descrizione dettagliata e orpellosa dei luoghi. Eppure la città è una protagonista viva e pulsante, il cui carattere trasuda dalle storie dei personaggi che Petra raccoglie di porta in porta.
I suoi sono polizieschi da strada che nell’adattamento italiano si spostano tra i carruggi e il Porto antico di una Genova ombrosa. Difficile, onestamente, immaginare quale altra città avrebbe potuto essere più adatta. Chi un minimo la conosce, sa che Genova appare ruvida, essenziale, solitaria e severa proprio come Petra, che inespressiva secca i suoi interlocutori alla prima parola in più. Ed esattamente come lei, Genova nasconde una polpa morbida, appassionata, ricca e tenace. Non la rivela a tutti. È lei a decidere con chi farlo, una volta colto di aver davanti occhi ben disposti a scavalcare l’apparenza.
Questa doppiezza (“ossimoro”, dicono quelli che si fermano al facile contrasto tra nome e cognome), la serie riesce a renderla piuttosto bene. Senz’altro con buon merito di Paola Cortellesi: una delle poche a saper delineare minuzie facendolo sembrare facile; una delle pochissime a sembrare sempre credibile. Quello che invece a Petra riesce un po’ meno fluido è creare un tutt’uno tra la città e la selvaticità degli altri personaggi.
Una parte consistente dei romanzi – raccontati in prima persona – si svolge nella mente della sua protagonista e nei dialoghi riflessivi con il suo aiutante. Perlopiù si tratta di elucubrazioni sul contesto che li circonda e su quanto la condizione sociale alla quale i personaggi appartengono ne determini azioni e reazioni. Pochi si abbandonano infatti alla sofferenza: i più mostrano fastidio per il misto di stupore e compassione con cui la polizia entra in contatto con lo squallore e la violenza che per loro sono normalità.
Questo Petra fatica a mostrarlo. Forse perché un’ora e mezza di episodio non bastano a posizionare bene ogni ingranaggio. Forse – opzione più probabile – perché la scrittura manca qualche snodo davvero essenziale. Petra soffre un po’ della stessa pecca che ha afflitto le ultime produzioni italiane: ha preparato benissimo i colori e poi si è frenata nel calcare il realismo non sempre gentile del degrado, degli accenti, della crudezza. Petra non si è sporcata le mani a sufficienza. Si è fermata un attimo prima.