Nel 1992, un saggio del politologo statunitense, Francis Fukuyama, sanciva la fine della storia. Anche se poi lo stesso studioso è tornato sulla sua affermazione ampliandola e contestualizzando il concetto alla luce dei nuovi sconvolgenti avvenimenti, la domanda che questo saggio poneva è ancora oggi attuale e controversa. Possiamo essere certi che il modello di Stato che si è imposto vincendo la Guerra Fredda, cioè lo Stato repubblicano occidentale di stampo capitalista, sarà l’ultima evoluzione politica a cui l’uomo assisterà? Sarà il capitalismo l’ultimo -ismo della Storia?
A distanza di quasi trent’anni, il modello sembra in difficoltà crescente ma ancora stabilmente alla guida del globo. Gli Stati Uniti, dopo aver vinto il confronto con la potenza sovietica nel secolo scorso, hanno visto diminuire la propria influenza globale e il proprio predominio economico, soprattutto a causa del progressivo avanzamento cinese, ma restano ancora alla guida di quello che Henry Kissinger avrebbe chiamato il “mondo libero”. Le più grandi aziende digitali sono americane e dominano quasi indisturbate Internet: Microsoft, Google, Whatsapp e Facebook sono statunitensi e ormai entrate nella vita comune di quasi ogni abitante del pianeta che abbia una connessione.
La lista delle imprese tecnologiche statunitensi si spreca, nomi famosissimi che premiano il sistema capitalistico: Bezos e la sua Amazon così come Musk, sudafricano ma naturalizzato statunitense, e le sue molteplici attività, dettano la linea per gli imprenditori del futuro. Tutto questo in un sistema, quello statunitense, che fa della libera impresa e della filosofia della frontiera, ancora oggi, i suoi segni distintivi.
In Europa gli Stati cercano di tenere il passo con le frizzanti economie d’oltreoceano e asiatiche mantenendo i diritti raggiunti difficoltosamente nel corso di secoli. Da guida del mondo nell’Ottocento, con la fine della Seconda Guerra Mondiale il vecchio continente ha accettato un ruolo di minor peso, essenzialmente sposando una versione soft del capitalismo made in U.S.A.
Le altre nazioni, con alcune eccezioni che possono facilmente rientrare nel gruppo dei paesi occidentali come l’Australia e la Nuova Zelanda, seguono e cercano, con alterne fortune, di raggiungere lo status di leader mondiale. Se in Sud America i Paesi in via di sviluppo devono affrontare enormi problemi di corruzione e distribuzione delle risorse, in Africa la situazione resta ancora oggi critica: molti paesi lottano per avere una stabilità politica che manca sin dalla loro nascita, mentre altri, pur crescendo, sono ancora lontani dagli standard di sicurezza, tutela dei diritti e stile di vita europei o statunitensi.
In Asia, seppur tralasciando la maggioranza dei paesi che affrontano varie difficoltà sociali o economiche, i due giganti che attirano l’attenzione di tutti i politologi e gli economisti sono la Cina e l’India. Quest’ultima però, pur forte di una potenza demografica e produttiva enorme e di un’industria tecnologica e delle risorse in costante aumento, non è ancora ai livelli della prima potenza dell’estremo oriente.
In effetti, la Cina rappresenta oggi la sfida più grande all’affermazione di Fukuyama. Se ci troviamo davanti ad un’economia cinese de facto più capitalista che mai, è vero anche che lo Stato è anni luce lontano dall’essere una democrazia liberale, o social-liberale, di stampo occidentale. Guidata dal partito comunista cinese, unico detentore del potere in Cina, la sua potenza demografica, economica e politica sembra inarrestabile. In particolare, dopo che Xi Jingping ha assunto il potere, molti parlano di un vero e proprio imperialismo cinese, fatto di prove di forza coi vicini, come l’inasprimento dei rapporti con il confinante Vietnam, o con una politica di investimento senza molti precedenti nella storia.
Una egemonia economica che forse sarà irreversibile, ma siamo sicuri che la politica cinese rimarrà sempre questa? Sarebbe la fine del capitalismo di stampo statunitense. Già in questi anni, però, il costo della manodopera cinese, arma formidabile con cui la Cina ha fatto un grande balzo in avanti, inizia ad aumentare, così come le tutele accordate ai lavoratori. Sarà possibile mantenere una concorrenza così spietata quando le condizioni lavorative inizieranno ad assimilarsi al modello occidentale?
Nel 2050 il mondo sarà diverso da come lo vediamo e viviamo oggi, i problemi ambientali saranno, se non si interviene, enormemente aumentati, le disuguaglianze sociali inasprite. La crescita demografica cinese un poco rallentata, mentre la Nigeria sarà uno dei cinque paesi più popolosi al mondo. Non sappiamo se avremo ancora l’Unione Europea, vero baluardo del mantenimento della pace globale, una federazione o un’assenza di organizzazioni internazionali. Certo è che l’affermazione di Fukuyama sarà ancora più malferma, perché il cambiamento tecnologico, sociale e filosofico non permette mai una pausa al mondo.
Un sistema peggiore o migliore di quello attuale? Abbiamo ora le capacità di modificare, se non determinare, il futuro che ci attende, che non sarà sicuramente come il 1992 o nemmeno come il 2020, ma solo una nuova possibilità, un nuovo -ismo che ci attende.
H. Kissinger, Anni di crisi, SugarCo, Milano, 1982