Al mercato dell’arte: pittura ad olio e proprietà privata

Come nel caso del “dispotismo illuminato”, del “libero mercato” o della “licenza poetica”, l’interpretazione della formula “mercato dell’arte” dipende necessariamente da una scelta ponderale, dalla necessità di attribuire un peso maggiore a una delle parole che la compongono.

È così che l’autoritarismo di stato e colonialista può essere giustificato da una supposta e ben delineata razionalità politica. Il capitalismo può sublimare crisi, diseguaglianze e sfruttamento attraverso il ricorso a una morale libertaria. I poetastri possono adornare i loro imbrogli retorici con la patente dello sperimentalismo.

Allo stesso modo, il “mercato dell’arte” può dare il senso di trovarsi al cospetto di una realtà fondamentalmente “estetica” – sebbene le accuse di mercificazione, classismo, snobismo e vanità siano sempre a disposizione nell’arsenale di un osservatore più cinico.

In altre parole, la domanda è: c’è davvero, ancora, della poesia nel mercato dell’arte? C’è davvero mai stata?

Potremmo mai liberarci dell’avveduto sospetto che tutto ciò – le fiere, le mostre, le aste, gli incantesimi, i vernissage – non siano altro (o almeno lo siano in larga parte) che protuberanze decorative e sublimanti del sistema economico capitalista? Dei valori fantoccio delle società borghesi? Della “gabbia d’acciaio”, dell’ignoranza di una pseudo-cultura basata sullo scambio-produzione e sulla miserabile dimenticanza di ogni valore umano, storico e sociale?

Il genuino sospetto – al di là dei rigetti più categorici – rimane anche nella coscienza di chi, con coerente e critica onestà, professa di amare quell’indefinibile esperienza chiamata “arte”.

E’ impossibile, in un brevissimo articolo, analizzare tutti gli squilibri, le simmetrie e le posizioni che seguono alla nostra concezione “ponderale” di “mercato dell’arte” – mettere il mercato dell’arte sulla bilancia. Ci azzardiamo allora a sbilanciarci sul lato del mercato e, leggendo un breve saggetto del geniale critico d’arte britannico John Berger, affrontiamo quella questione che tanto chiaramente ed emblematicamente mette a fuoco la moderna parentela tra profitto ed estetica: la relazione storicoartistica tra pittura ad olio e proprietà privata.

Questione di sguardi

Nel terzo saggetto divulgativo del libro Questione di sguardi (1972), John Berger parla di quella strana eppur evidente “analogia tra il possesso e il modo di vedere incorporato nei dipinti ad olio“. Nella buona parte dei casi i dipinti ad olio raffigurano “cose”. Ma questo oggetto non è neutrale, non è “oggettivo”. Berger ci mostra come, almeno tra il XVI secolo al XX, questa tecnica (di per se’ più antica e già ammaestrata) si sia sviluppata in coerenza con una «visione della vita per cui le tecniche della tempera e dell’affresco erano inadeguate». Come si sa, essa impose il suo modo di vedere (anche) a motivo della sua verosimiglianza pittorica. Ma ciò che è veramente importante è la prospettiva socio-economica verso questa appetitosa potenzialità.

Un dipinto come La galleria dell’Arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles (1650-1652), opera di David Teniers il Giovane,

ci mostra il genere d’uomo per il quale, nel diciassettesimo secolo, i pittori realizzavano i loro dipinti.

Il mecenate Leopoldo Guglielmo è innanzitutto un proprietario, un possessore, un padrone. Tenta di rappresentare, attraverso delle “cose”, la sua vita – elevata ovviamente nei suoi aspetti più nobili, lussureggianti e spesso fittizi – e i suoi desideri o aspirazioni. Il collezionista (nobile, rozzo, arricchito, vanesio o genuino) viveva necessariamente di un “amor proprio” rousseauiano, di una scrupolosa e spesso ossessiva consapevolezza di sé. Consapevoleza che lo portava a farsi padrone della magnificenza del mondo e a metterla in mostra sperando che essa riflettesse delle parti di sé, del “proprietario”. (Parliamo ovviamente di un ideale “collezionista medio”, al quale non sono dati il buon gusto, la sobrietà e la spontaneità. Non sappiamo, come sicuramente avrebbe saputo Berger, se Leopoldo Guglielmo rientrasse in questo ideale).

La relazione storicoartistica tra pittura ad olio e proprietà privata

Un modo di vedere il mondo, determinato in definitiva da nuovi atteggiamenti nei confronti della proprietà e dello scambio, trovò la sua espressione visiva nella pittura a olio e non avrebbe potuto trovarla che lì. La pittura a olio fece alle immagini ciò che il capitale aveva fatto alle relazioni sociali. Le ridusse all’equivalenza di oggetti. Tutto divenne intercambiabile, poiché tutto si convertì in merce. L’intera realtà venne meccanicamente misurata dalla sua materialità.

Il motivo di questa adozione da parte del nascente capitalismo europeo, come anticipato, sta proprio nel fatto dell’innovazione tecnica apportata dalla pittura ad olio. Essa “trasmetteva una visione di esteriorità totale“. La lucidità, il dettaglio, la tattilità, la plasticità, la flessibilità, la fluidità, la lucentezza e la leggerezza sono alcune delle caratteristiche che forniscono alle tele (non più tavole di legno) dei dipinti a olio un “potenziale illusionistico superiore persino alla scultura. (Da questo punto di vista, un esempio estremo ma indicativo è il trompe-l’œil di opere come Escapando de la crítica (1874) di Pere Borrell del Caso).

Nelle tradizioni precedenti le opere d’arte celebravano la ricchezza. Essa, però, era ancora il simbolo di un ordine sociale divino immutabile. La pittura a olio celebrava un nuovo genere di interesse dinamico, che trovava la sua sola legittimazione nel supremo potere d’acquisto del denaro. Era dunque il dipinto stesso a dover essere capace di illustrare la desiderabilità di ciò che il denaro può acquistare.

L’opera deve fornire una prova immediata e tangibile della “proprietà”

L’opera deve fornire una prova immediata e tangibile della “proprietà”, che può essere espressa – nelle mani di un virtuoso pittore – dall’abbondanza di una sprecata tavola imbandita, di possedimenti terrieri sconfinati, di busti classici e neoclassici o di schiavi coloniali. Fatta eccezione per alcune opere di grande pregio e genialità, si giudichino da se’, consultando la produzione di artisti “minori” o “integrati”, gli esiti pomposi, kitsch e osceni.

 

 

Stiamo dicendo che se si studia la cultura della pittura a olio europea come insieme, e se non si dà ascolto a ciò che essa ha detto di se’, il suo modello non è tanto una finestra incorniciata aperta sul mondo quanto una cassaforte incassata nella parete, una cassaforte in cui è depositato il visibile.

Liberarsi da una tradizione del “mercato dell’arte” assolutamente legata, per l’appunto, al mercato

Fu solo in circostanze occasionali che coloro che conosciamo come i grandi geni della pittura occidentale (Rembrandt, Vermeer, Poussin, Chardin, Goya, Turner, Blake, etc.) riuscirono a liberarsi (individualmente e poeticamente) da una tradizione del “mercato dell’arte” assolutamente legata, per l’appunto, al mercato.

Spesso si riuscì a superare la retorica, l’apparenza, l’ostentazione e il preziosismo attraverso la smaterializzazione (Blake), l’infedeltà tra spirito e materia (Rembrandt), la sintesi eterea (Poussin), il sarcasmo (Goya) o l’estraneazione (Van Gogh). Ma mai ci fu, secondo Berger, un sistematico rifiuto del mercato da parte delle arti visive, con tutte le conseguenze estetiche, formali ed assiologiche che questo implica. L’unica frase sincera che il mercato, il borghese, il capitale sanno dire sull’arte (“con l’arte si muore di fame”), fa sì che tutto questo sia lasciato, sistemicamente, all’apparenza, alla rozzezza, al classismo e alla falsa coscienza.


Fonti:

J. Berger, Questioni di sguardi, il Saggiatore, Milano, 2007

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