A Night at the Opera

“A Night at the Opera”: i 45 anni del capolavoro dei Queen

È nei momenti di difficoltà che nascono le opere d’arte, e A Night At The Opera non fa eccezioni. Quando divenne completamente sordo, Ludwing van Beethoven continuò a comporre e nel 1824 diede vita all’Inno alla gioia. Nel 1897, Oscar Wilde scrisse la lettera intitolata De profundis, dedicata al compagno Alfred Douglas, mentre si trovava nel carcere di Reading a scontare una condanna per omosessualità. Tra il 1915 e il 1918, Giuseppe Ungaretti mise su carta le sue poesie più belle direttamente dal fronte, durante la Prima guerra mondiale. Sebbene si tratti di situazioni differenti tra loro, il comune denominatore resta il periodo difficile che gli artisti stavano vivendo. Ognuno di loro si è dovuto affidare all’arte per cercare una via d’uscita. Ognuno di loro c’è riuscito.

Gli esordi della band

Quando A Night At The Opera uscì il 21 novembre 1975, i Queen avevano all’attivo tre album: quello d’esordio eponimo, Queen II e Sheer Heart Attack. Con le loro travolgenti personalità e quel sound innovativo, avevano attirato l’attenzione su di sé sin dalle prime canzoni ed esibizioni dal vivo.

Freddie Mercury si muoveva sul palco in modo teatrale, per alcuni eccessivo, ma di certo affascinante. La sua voce si adattava alla perfezione ai ritmi dei vari brani, passando dalla delicatezza di una Nevermore alla grinta e al timbro pieno dell’interpretazione di Liar o Keep Yourself Alive. La chitarra di Brian May riproduceva un suono particolarissimo e irripetibile, se si pensa che creò lui stesso la Red Special, insieme al padre Harold. Anche il batterista Roger Taylor si faceva notare, grazie alla sua tecnica affinata nel corso del tempo e voce ricca e potente, che rendeva protagonista in alcune canzoni, come The Loser in the End. Infine, John Deacon, il componente apparentemente più “tranquillo” dei Queen, venne definito Gordon Fletcher di «Rolling Stone» come “esplosivo, un colossale vulcano di suoni la cui eruzione fa tremare la terra“.

La nascita dell’album

I presupposti per il successo c’erano tutti. A dire il vero, nella prima metà degli anni Settanta, avevano ottenuto più di qualche consenso. Hit come Seven Seas Of Rhye, Now I’m Here e la sofisticata e “mercuriana” Killer Queen erano state molto apprezzate. Purtroppo, però, dietro alle prime posizioni delle classifiche di vendite c’era una situazione a dir poco sconfortante in termini di profitti. Infatti, a causa di un contratto firmato nel 1972, ai membri della band spettava un compenso davvero minimo, ma se ne resero conto quando, nonostante il successo commerciale di Sheer Heart Attack, si trovarono in una condizione di seria indigenza. Trovarono un nuovo manager, John Reid, che si assunse la responsabilità di prendersi carico dei debiti accumulati dai Queen, a patto che andassero in studio e incidessero “il miglior album in assoluto che potessero fare“. Così, nacque A Night At The Opera, l’ultima possibilità dei Queen.

A Night At The Opera: un capolavoro democratico

La locandina del film “A Night at the Opera”

Già al primo impatto, il titolo A Night At The Opera appare molto particolare. Si tratta di una citazione colta e particolarmente di nicchia dell’omonimo film dei fratelli Marx, del 1935. Il motivo della scelta è altrettanto originale. I Queen volevano che l’album fosse una sorta di intrattenimento per i fan e che questo concetto fosse chiaro sin da subito, ancor prima dell’ascolto. Tra tutti i generi musicali, infatti, l’opera è stata la prima a essere vista come un “passatempo”, tanto da richiamare a teatro un pubblico ampio e non socialmente diviso. Rispetto alla musica da camera o persino quella sinfonica, l’opera ha rappresentato per diverso tempo il genere più “democratico” del panorama artistico.

Inoltre, la passione di Freddie Mercury verso questo tipo di musica si stava già facendo largo. Non avrebbe potuto esserci nulla di più scandaloso negli aggressivi anni Settanta, quando il punk stava ormai dilagando e con esso anche i suoi costumi. Invece, Mercury era senza dubbio una rock star, ma anche un amante della lirica e del balletto.

Un patchwork di generi

A Night At The Opera è un album che vanta una commistione di generi rara da trovare altrove. Rappresenta la volontà di una band messa alle strette che, però, continua a sfidare l’industria musicale sfuggendo a qualsiasi etichetta e categorizzazione. Si passa dal glam all’hard e progressive rock, con sprazzi di operetta e persino di swing.

C’erano molte cose che volevamo fare sugli altri album ma non c’era spazio; adesso invece ne abbiamo la possibilità, vogliamo spaziare in tutti i generi e continuare il lavoro sui cori e le sovraincisioni fino a realizzare un’opera d’arte costruita in studio.

Il disco si apre con una delle canzoni più forti della tracklist: Death on Two Legs (Dedicated to…), dedicata a Norman Sheffield, il primo manager dei Queen. La base musicale iniziale è classica, una serie di argute scale al pianoforte, molto simile a un’ouverture da concerto. Segue, poi, la chitarra distorta di Brian May. Composta da Freddie Mercury, il cantante non si risparmia e mette in musica un’autentica lettera d’odio verso colui che per il gruppo e i suoi seguaci è sempre rimasto il colpevole per aver raggirato la band e di aver abusato del suo ruolo.

Seguono senza soluzione di continuità Lazing on a Sunday Afternoon, un interludio al piano dallo stile di fine Ottocento frutto sempre di Mercury, e l’accattivante I’m in Love with My Car di Taylor, dove regna l’hard rock. I tre brani successivi sono l’esempio di come i Queen siano sempre stati una band con quattro grandi compositori. Infatti, John Deacon compose una vera dedica d’amore alla moglie con You’re My Best Friend. Brian May, invece, diede prova della sua versatilità con ’39, pezzo folk a tema fantascientifico, e Sweet Lady, canzone rock dalla metrica musicale atipica.

Il secondo atto dell’album è introdotto da Seaside Rendezvous, un’altra creazione di Freddie dai richiami d’inizio Novecento della Belle Époque, a cui segue The Prophet’s Song di May, una mini-suite dai cori sinfonici. Poi, c’è Love Of My Life, la dolce ballata al pianoforte di Mercury per il suo amore di gioventù Mary Austin. A chiudere A Night At The Opera si trovano Good Company, interamente di Brian composta con un ukulele, la magistrale Bohemian Rhapsody e God Save The Queen, l’inno nazionale britannico reinterpretato dal chitarrista della band.

La gemma dell’album: Bohemian Rhapsody

Che A Night At The Opera sia un autentico gioiello musicale è indiscusso. Tuttavia, la canzone più rivoluzionaria e innovativa del disco si trova alla penultima posizione della tracklist: Bohemian Rhapsody. Dietro a uno dei brani più belli e particolari di sempre, c’è il genio di Freddie Mercury. Si tratta di una mock opera, ovvero di uno scherzo in musica. L’intento era quello di destrutturare i canoni tradizionali della forma-canzone. È suddivisa in cinque parti diverse che ritornano con schema circolare: una corale a cappella, poi una ballad conclusa da un riff di chitarra, un intermezzo operistico, una sezione rock e, infine, un altro segmento in stile ballata. Una struttura così complessa era già stata sperimentata da Mercury nel secondo album con The March Of the Black Queen, ma qui viene ulteriormente migliorata e potenziata.

Ancora oggi, non si sa con esattezza di che cosa parli il testo. C’è chi vi ha letto tra le righe una dichiarazione dell’omosessualità del cantante. Altri ne rintracciano la costruzione di una tragedia, con l’esaltazione di temi quali la sventura, l’esilio e la colpa, e chi la vede come una dedica a Mary Austin, il grande amore di Freddie. Ogni ipotesi non ha mai trovato risposta, perché il significato di Bohemian Rhapsody rimane e resterà sempre un mistero.

Il trionfo

Presentare Bohemian Rhapsody come singolo d’uscita era stata considerata come una scelta folle. Oltre alla sua struttura particolare, il brano durava complessivamente sei minuti, il che andava contro qualsiasi logica commerciale e radiofonica. La EMI, l’etichetta discografica dei Queen, tentò di opporsi, proponendo I’m In Love With My Car come pezzo di lancio. Freddie Mercury non solo si oppose, ma fece in modo di “raggirare” il via libera del suo management: consegnò la demo di prova di Bohemian Rhapsody al suo amico DJ Kenny Everett, che trasmise la canzone per ben quattordici volte durante un weekend. Il successo fu tale che la EMI fu “costretta” a pubblicare il singolo, il 31 ottobre 1975, che venne certificato disco di platino e rimase per nove settimane al primo posto della classifica britannica. Un irriverente Freddie dichiarò:

Sapevamo che la gente ci avrebbe apprezzato prima o poi, si trattava solo di capire quando. E adesso è successo.

Sulla scia di questo trionfo, anche A Night At The Opera venne accolto positivamente, nonostante il suo essere estremamente all’avanguardia. I critici ne lodarono le tecniche di produzione, così come la varietà di suoni e di generi. Nel è stato inserito nella lista stilata da «Rolling Stone» degli album più belli di sempre alla 231° posizione. Il film Bohemian Rhapsody che ripercorre, in parte, la storia dei Queen uscito nel 2018 ha riportato alla luce aspetti poco conosciuti della band e ha fatto tornare il brano da cui prende il titolo in vetta alle classifiche. E il resto è storia.

 

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