C’è sempre un certo grado di impiccio nel portare su qualche schermo le storie di immigrati. Bisogna addentrarsi nel campo minato degli stereotipi, schivarli, e una volta individuata la via giusta resistere alla tentazione di correre all’eccesso opposto, quello dei ritratti agiografici e della santificazione. In questo senso Stateless, la miniserie di ABC Australia firmata Netflix, non è il miglior esempio da seguire. I suoi migranti, chiusi in un centro di detenzione nel deserto in attesa di ottenere il visto, parlano solo per aforismi spirituali e hanno tutti un’irreale carenza di difetti benché s’ispirino a persone che esistono davvero.
Stateless è infatti un patchwork di storie vere. Cate Blanchett ha iniziato a cucirle assieme nel 2013 con l’aiuto degli sceneggiatori Tony Ayres ed Elise McCredie, attingendo un po’ alla sua esperienza umanitaria come ambasciatrice ONU per i diritti dei rifugiati e un po’ ai racconti di chi nei centri di detenzione ci è stato per diverso tempo, come migrante ma anche come membro del personale.
In una manciata di episodi la serie esplora un microcosmo quasi impenetrabile dall’esterno e per questo molto poco conosciuto. Per i profughi i centri di detenzione dovrebbero essere una breve tappa dove aspettare che le proprie richieste di asilo politico vengano esaminate e approvate. Spesso però diventano un limbo in cui rimangono bloccati per anni, perdendo progressivamente la propria identità. Ma non solo i rifugiati, una volta entrati in questo buco nero, si vedono ridotti a numeri da un sistema che utilizza il singolo per scopi politici. Il groviglio di dinamiche nell’apparato dell’immigrazione mette a dura prova la dignità e la condizione psichica di chiunque ci entri in contatto.
Questo processo di deumanizzazione è il punto in comune tra i quattro diversi personaggi principali della serie. Ameer (Fayssal Bazzi) è arrivato dall’Afghanistan sperando in un futuro migliore per le sue figlie; Cam (Jai Courtney) si è appena fatto assumere come guardia per poter mantenere la famiglia; Clare (Asher Caddie) è la nuova direttrice del centro e deve fare i conti con le pressioni e i sensi di colpa; Sofie (la Yvonne Strahovski di The Handmaid’s Tale) è una giovane hostess che dopo essersi allontanata da una setta si ritrova, per una serie di inconvenienti, tra gli ospiti del centro sotto falso nome.
Sofie è bianca, non è una migrante e la sua identità fittizia – presa in prestito da una sconosciuta tedesca – non rientra di certo tra quelle viste con sospetto dagli stati smaniosi di chiudere i propri confini. Eppure la sua storia contiene le due maggiori ragioni per cui Stateless merita di essere guardata.
La prima è che nel suo percorso narrativo ci s’imbatte in Cate Blanchett e Dominic West, propulsori di magnetismo a dispetto dei ruoli piccoli che per una volta si sono scelti. Insieme interpretano i carismatici Pat e Gordon, moglie e marito a capo di una strana organizzazione che abbina corsi di danza e discutibili sedute di terapia per ritrovare se stessi, alla modica cifra di 400 dollari a settimana. A loro Sofie si unisce per isolarsi dai genitori e dalla sorella, che vorrebbero farla internare; da loro viene però ripudiata poco dopo, procurando il grande dispiacere di vederli tornare soltanto di sfuggita, senza poterne approfondire ulteriormente la fascinosa ambiguità.
La seconda ragione è che non solo la storia di Sofie innesca sufficienti incognite da sostenere da sola l’intera componente thriller del racconto, ma è altresì tanto assurda quanto vera. Il suo personaggio riflette in parte la vicenda di Cornelia Rau, una donna australiana che tra il 2004 e il 2005 rimase reclusa per dieci mesi in un centro di detenzione per migranti irregolari. Nessuno – la famiglia ne aveva perso le tracce – si pose domande su come fosse finita lì; ma soprattutto quasi nessuno si preoccupò del graduale aggravarsi della sua schizofrenia.
Capitando in un periodo di grande dibattito sull’immigrazione, il caso di Rau smosse alcune riforme sul controllo del benessere psicologico dei detenuti, oggi tuttavia indebolitesi. All’epoca fu considerato una specie di cavallo di Troia che permise ai media e all’opinione pubblica di infiltrarsi in una realtà da sempre iperprotetta. D’altronde, è più difficile distogliere lo sguardo dalle brutture, se riguardano persone che non vengono da posti e culture lontane, ma sono simili a noi.
Stateless si è incaricata più o meno dello stesso ruolo. Si è introdotta in un contesto che di rado viene raccontato, ma sul quale spesso si è certi di avere una giusta opinione. Blanchett stessa ha detto di aver scelto il formato televisivo perché più immediato: ci si accomoda sul divano e si discute insieme di quanto visto. Non importa quindi granché che la drammaticità delle sue storie non sia particolarmente originale e i personaggi – specie i migranti – poco tridimensionali. Prima ancora che innovare, Stateless vuole informare. E poiché ci riesce con sufficiente efficacia, si può apprezzarla benissimo così.