Al di là dello spettacolo: ritornare a credere nell’umanità

E abbiamo dimenticato il sapore del pane… il rumore degli alberi… la delicatezza del vento… abbiamo dimenticato… il nostro nome.

(Gollum, Il signore degli anelli)

Come ritornare a credere che sarebbe potuta andare diversamente?

Che c’erano un’infinità di alternative migliori alla perdita totale di senso, significato e sensibilità? Viviamo una perdita di mondo nel mondo stesso in cui viviamo. Il pane che mangiamo non ha più sapore, i suoni della natura non sono più accoglienti, la bellezza non si fa più riconoscere…

Di tutto ciò, il “demone” di Gollum, che normalmente potrebbe risultare da uno stato patologico di ansia, stress ed astenia, potrebbe rappresentare una metafora perfetta per una diagnosi. Non psichiatrica, non individuale, ma sociale, culturale e antropologica. Lo stato a cui facciamo riferimento è quello di una cultura insipida, di una “miseria simbolica”, di una perdita di capacità attrattiva e significante da parte dell’arte, delle esperienze estetiche e dello stesso “intrattenimento”. Potremmo parlare fondamentalmente di tre “D”: depressione, dipendenza, dissociazione.

Depressione

La depressione, la malinconia, la viviamo spesso in uno stato di tristezza endogena, in una vaghezza emotiva catatonica, irregolare, incontenibile. In una pulsione autodistruttiva, che col tempo rischia di sublimarsi in un vero e proprio desiderio di autoeliminazione. Il mondo non ha valore e mi rigetta, non mi accoglie. Ma il mondo non può essere annullato, non ho la forza (né io, né chi può aiutarmi) di cambiarlo. E quindi sono io stesso ad annullarmi, ma senza nemmeno riuscire ad esaudirmi: desidero di annullarmi.

Dipendenza

La dipendenza non è una sventura accidentale, un precipitato fatale, ma va ricondotta interamente a una condizione sociale. La dipendenza genera depressione, ed essa è dipendenza innanzitutto da un sistema sociale insoverchiabile. Ad esempio da un mondo artistico che si limita a compravendere la mia attenzione all’etto, che col sensazionalismo, col formalismo kitsch e con delle vere e proprie strategie di marketing tiene in piedi la baracca del “mondo dell’arte”. Annullando tuttavia quest’ultima nel suo principio più profondo, nella qualità, privandola dell’aura e rendendola mera oziosità, snobismo, pubblicità.

Da un mondo economico che ammazza ogni fiducia generazionale, ogni sicurezza familiare ed ogni legame di senso con la propria storia per il gioco circense che ci vuole vedere tutti come “libere” monadi. Sebbene ciascuno sappia benissimo che ciò è una dinamica di sfruttamento e giustificazione della disuguaglianza, dal momento che c’è sempre qualcuno più “libero” e più “uguale” di qualcun altro, qualcuno che monopolizza la monadologia. E la dipendenza, tutta, insomma, è fonte depressiva che sgorga da un mondo in cui le istituzioni (l’arte, il mercato del lavoro, la geopolitica, la giustizia, l’intrattenimento… in generale, il mercato) fanno a gara a renderci pedine di un Subbuteo capitalista.

Dissociazione

La dissociazione – risultato sociologico fondamentale delle tendenze di cui sopra ­– la descriviamo direttamente servendoci di un dizionario di psicologia, senza lasciare spazio a fenomenologie personali:

la distorsione, la limitazione o la perdita dei normali nessi associativi con conseguente incongruenza tra idea e idea, tra idee e risonanza emotiva, tra contenuto di pensiero e comportamento, dove è leggibile una separazione e nel contempo un allacciamento arbitrario tra diversi elementi della vita psichica.

È ad esempio ciò che accade con il “mercato dell’attenzione” messo in moto dalle Big Tech statunitensi (Google, Facebook, etc.). Gli schermi e ciò che accade dietro di essi sono disegnati per tenerci perennemente incollati ad essi, con le conseguenze psicologiche, sociali e politiche che ormai sono stranote. Tutto ciò è una dissociazione, una frammentazione della psiche in centinaia di piccole parti diverse e tutte in contrasto tra loro. Una dispersione dell’individuo, un perenne scialacquare tutto ciò che è organico ed equilibrato, e quindi felice e sensato.

La società dello spettacolo

Questa breve introduzione fenomenologica ci porta a ricercare un nome adeguato al meccanismo culturale che suscita quest’antropologia delle “tre D” (depressione, dipendenza, dissociazione). Un nome che è stato già trovato da Guy Debord, nel suo classico La società dello spettacolo (1967).

Lo “spettacolo” è precisamente l’espressione più compiuta della «perdita dell’unità del mondo» generata dal capitalismo, come tenteremo di spiegare.

Rifacendosi al Capitale di Karl Marx, sulla falsariga del quale l’indagine di Debord si pone fin dalle prime righe del saggio, si può affermare che la “società dello spettacolo” è l’esito più recente del feticismo della merce. Il tragitto che ha portato il mondo borghese ad una prima forma di alienazione – il passaggio dall’”essere” all’”avere” – è approdato ad una forma ancora più assoluta di alienazione. Quella che addirittura distoglie il capitalismo dall’”avere” e lo colloca nell’orizzonte assurdo di una prioritaria “apparenza”. Lo spettacolo, lo spettacolarismo, non è infatti solamente un prodotto della produzione capitalistica, dell’”industria culturale”. Ma è la vera e propria Weltanschauung dei rapporti economici contemporanei, vale a dire il «modello» assoluto e generale di vita, lavoro, politica, cultura e socialità della forma contemporanea del capitalismo (oggi) globale.

Il paradosso

Lo spettacolo è un «rapporto sociale», la definizione di una vera e propria «realtà oggettiva». E sta qui il paradosso. Quella spettacolare è una società “invertita”, “perversa”, nemica della vita e dell’oggettività, nemica dei bisogni reali, della realtà dei fatti e della visione empirica delle cose. Proprio per questo, lo spettacolo è reale in quanto «realmente invertito». Il capitalismo dello spettacolo produce un mondo in cui l’apparenza la fa da padrona. Senza un necessario collegamento con ciò che uno sguardo ragionevole, assennato e psicologicamente sano definirebbe “realtà dei fatti”, “concretezza materiale”.

Il capitalismo che Debord profetizzava e cominciava a osservare è, per esempio, quello della ricchezza finanziaria, materialmente inconsistente e quindi in contrasto con la definizione stessa di ricchezza. Distaccato da qualunque collegamento con la produzione, le richieste e le esigenze reali, attivo nell’ambito di bolle, speculazioni e reti digitali. Legato ai veri e propri “beni” solo da un’infrastruttura che – a rifletterci bene – è folle, ingiustificata ed emersa da un senso comune generale totalmente obnubilato, fantasioso e a tratti delirante.

Un mondo realmente rovesciato

È prodotto di schizofrenia – di produzione di realtà illusorie e personalità multiple, che finiscono per confondersi con le realtà effettive e la personalità sana – così come lo è la forma di vita social. Un’ espressione di sottomissione delle masse all’apparenza, al consumo di immagini, modelli e relazioni totalmente lontani dalla realtà dei fatti. Luogo di comportamenti indotti, pulsionali e in definitiva patologici. Comportamenti che pongono in un inquietante rapporto di vicinanza e coerenza (psichiatrica, sociologica, antropologica) tra la più “innocua” consacrazione della mente e dei comportamenti di giovani bambin* a ideali totalmente diseducativi, brutalizzanti, anestetizzanti e de-moralizzanti. E le stragi nelle scuole, i suicidi per senso di incompiutezza o vergogna social, la manipolazione della mente degli elettori democratici, alla dissociazione completa dalla reale socialità umana.

spettacolo

Questo spettacolo, questo regno della fantasia, viene difeso da alcuni come “una nuova forma di realtà”. Quando invece ben si sa, a uno sguardo attento, analitico e scientifico, che si tratta di pura alienazione (spesso e volentieri indotta da semplici giochi di profitto) e terreno di malattie mentali e sociali. Debord parla di «fabbricazione di alienazione» e «falsificazione della vita sociale». Si tratta, all’origine, di un effettivo «irrealismo» a scopi meramente lucrativi e propagandistici. Irrealismo che poi si evolve e, sotto il controllo di nessuno, distrugge ogni coerenza, ogni fede, ogni certezza ed ogni senso di autenticità.

Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.

Passività…

«Lo spettacolo non è nient’altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale», nel senso che in esso si compie pienamente il significato della «passività», del nomadismo, della dissociazione che governa la società moderna. E ovviamente, “lo spettacolo si sottomette agli uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi“. Quindi è il sistema economico stesso che, attraverso e dall’interno dello spettacolo, in maniera del tutto automatica, ricostruisce questa sorta di pseudo-sacralità dell’apparenza. E infatti, lo spettacolo è la stessa auto-assoluzione e, anzi, auto-elogio del sistema, che pianta nella mente e nei comportamenti dei suoi produttori-consumatori un «ritratto» avvincente di sé stesso. Il sistema si giustifica, si esplica e si sublima nello spettacolo, poiché in esso e solo in esso la società può definitivamente “proletarizzarsi”, separarsi dai suoi valori primari, dalle sue idee fondate e dai suoi bisogni reali e perdere coscienza.

Lo spettacolo, infatti, pur derivando e causando, come abbiamo detto, dalla perdita di unità del mondo, tenta di ricostituire una natura sostitutiva. Vale a dire un terreno di vita, attraverso la fabbricazione ideale e materiale di un «artificiale illimitato» e dissociante, alienante, volto a disperdere nella perenne distrazione o nella meccanicizzazione del lavoro ogni baluardo psicologico di resistenza all’imperativo del consumo.

Nello spettacolo, una parte del mondo si rappresenta davanti al mondo, e gli è superiore. Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che avvicina gli spettatori non è che un rapporto irreversibile al centro stesso che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato.

…e separazione

Insomma, lo spettacolo è più una calamita insindacabile, che attrae invisibilmente degli spilli. Oppure la melodia di un pifferaio magico che guida i suoi topi, piuttosto che una reale fonte di aggregazione sociale e culturale, che invece implica sempre la piena partecipazione attiva da parte dell’individuo. La “separazione” è il concetto chiave del libro di Debord, e si estende tra diversi utilizzi e su diversi piani del discorso. Fondamentale qui è capire che si tratta effettivamente di alienazione. Di una forma estrema di alienazione, la quale, come vedremo in conclusione, ha come effetto quello di rendere il mondo (l’esperienza, l’arte, il lavoro, il divertimento, la religione, etc.) completamente insipidi.

L’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della sua stessa attività incosciente) si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più i suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. È la ragione per cui lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto.

Un mondo nuovamente sensato

Pur ponendosi come «il sensibile per eccellenza», l’oggetto di un desiderio materiale o ideale quasi necessario, l’oggetto spettacolare è totalmente estraneo (o nemico) alla vita. Dal momento che esso fa perdere all’esperienza e ai suoi oggetti qualunque tipo di “qualità, relegandoli nel regno della “quantità. In altri termini, la merce spettacolare è un insieme di oggetti senza qualità, proprio perché condividono tutti la stessa, insipida qualità (la distrazione, essenzialmente), e quindi tra di essi c’è unicamente un rapporto quantitativo. Non ci sono intensità differenti, non ci sono reali occasioni di stupore, estasi, sorpresa.

Si pone di fronte a noi – sulle vetrine, sugli schermi, sulle pubblicità – una «falsa scelta» nell’ambito di un’abbondanza di prodotti teoricamente concorrenziali, escludentisi, ma che in realtà si pongono tutti sullo stesso ordine di esistenza ed esprimono tutti la stessa trivialità. Vale a dire: la pulsione verso un oggetto ritenuto «prestigioso» e desiderabile svanisce subito, non appena l’oggetto viene comprato o consumato, rivelando esso immediatamente la sua essenziale «menzogna» e lasciando il posto ad un altro, pseudo-concorrenziale pseudo-oggetto del desiderio, ripetendo infinitamente lo stesso ciclo. In tutto ciò, la vita umana si dissocia tra le merci. E l’unica unità, l’unico senso che si va creando è quello dello sguardo fisso sulle merci, diventando così impossibile uscire da questa relazione col mondo e pensare seriamente al di là di essa.

Infatti, come osserva Debord, l’infelice sorte del pensiero, della critica della società dello spettacolo è che essa non è realmente capace di uscire da quella e ragionare in termini autenticamente alternativi. Essendo lo spettacolo la struttura stessa della nostra socialità, del nostro conscio e del nostro inconscio, non esiste critica dello spettacolo che non sia, in fondo, essa stessa spettacolo. È l’essenza fondamentale del capitalismo, come di ogni altro sistema culturale della storia: non è realmente possibile porsi al di là del proprio momento. Si è sempre figli del proprio tempo.

Resistenza

L’unica operazione possibile, a questo punto, è quella che molti autori hanno riconosciuto come “resistenza”. Una resistenza militante. La prassi di critica, insulto e boicottaggio dello spettacolo non avrà un significato sistematico, non sarà veramente alternativa. Ma vivrà di spintoni e capocciate che, se tanti e se forti, il sistema non potrà ignorare.

Ciò che il reclamare l’essere al di là dell’apparenza ci richiede, ciò che l’uscita da questo umiliante anti-umanismo ci richiede, è la riscoperta di un desiderio interno, viscerale, sempre profondo nella nostra natura umana, proprio in quanto umana. Fare dell’arte critica, realmente critica, il quanto più possibile nemica del sistema artistico. (Tanto nel suo lato politicamente corretto che da quello apparentemente scorretto. Sia dal lato dei film Marvel che da quello delle allineate, banali e kitschissime “tarantinate”). Ciò è richiesto per la riaffermazione di un desiderio autentico, umano, umanistico, rispettoso della nostra volontà di vita. Così per la politica, per il linguaggio, per l’economia, per l’intrattenimento, per le relazioni amorose ed amicali. Solo nell’esercizio di un autentico desiderio – pur se corrotto, pur se indebolito, pur se incostante, pur se incoerente – può sperare di viaggiare l’alternativa ad un sistema annichilente ed alienante, la riscoperta di un mondo nuovamente sensato e saporito.        


FONTI

G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini + Castoldi, Milano, 2017

U. Galimberti, Dizionario di psicologia, UTET, Milano, 1992

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