Norvegia e petrolio verso il divorzio?

Il matrimonio tra la Norvegia e il petrolio sembra da qualche anno attraversare acque burrascose. Se è vero che l’oro nero è un pilastro basilare dell’economia e della politica del paese scandinavo, altrettanto inconfutabile è pure la volontà di ampliare le proprie politiche energetiche prediligendo sempre più le alternative rinnovabili. Il dibattito è aperto e, tra passi avanti e indietro della politica e casi giudiziari, il futuro della Norvegia petrolifera sembra orientarsi verso il cambiamento.

La terra dei fiordi e dell’aurora boreale, grazie alle proprie acque territoriali nel Mare del Nord e nel Mar Glaciale Artico, fa dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi sottomarini il suo principale introito finanziario. Con ben 3 milioni di barili al giorno, la Norvegia è il primo produttore dell’Europa occidentale e il terzo esportatore mondiale di petrolio, dietro solo a Russia e Arabia Saudita. Il greggio rappresenta, infatti, il 62% degli export del paese e il 18% del Pil, impiegando nella filiera circa 225.000 lavoratori. Niente male per una nazione di poco più di 5 milioni di abitanti. L’economia norvegese è molto influenzata dalla presenza statale, tanto che il governo possiede, tramite partecipazioni di maggioranza, i principali operatori nel settore. Questo ha permesso negli anni di reinvestire i proventi dell’esportazione del prezioso liquido nei servizi dello stato sociale – nel 2010 la Norvegia era il paese con il più alto indice di sviluppo umano al mondo – e nello sviluppo delle energie rinnovabili.

Nonostante l’essenziale ruolo giocato dal petrolio nell’intero sistema economico e sociale norvegese, però, sembra che il governo stia cercando di evolvere il proprio sistema energetico, dimostrando una lungimiranza notevole. Il Fondo sovrano di Oslo, che gestisce quasi 1.000 miliardi di euro ed è il più ricco fondo statale al mondo, ha deciso nel 2019 di uscire da più di 95 società operanti nel settore petrolifero, incassando dalle cessioni delle sue partecipazioni circa 5,4 miliardi di euro. Questa decisione certamente eclatante segue la politica di investimenti etici già iniziata nel 2015 dal Fondo, che aveva abbandonato le imprese in cui il carbone rappresentasse più del 30% delle entrate, così come quelle operanti nel settore del tabacco, delle armi nucleari o, ancora, le attività sospette di corruzione. Certamente un buon esempio per ogni fondo statale.

Ma cosa ha spinto il Fondo a dissociarsi dal mondo petrolifero? Certamente motivazioni etiche e ambientaliste, ma non solo: i governanti norvegesi hanno raggiunto la propria decisione radicale soprattutto per prevenire nel lungo periodo le perdite che interesseranno il settore. Essendo destinato a finire in futuro più o meno lontano, si stima che i giacimenti norvegesi siano stati sfruttati dagli anni Novanta ad oggi circa per il 50% del totale disponibile, il greggio potrebbe non essere più un investimento economicamente produttivo per i prossimi decenni. Inoltre, proprio grazie alle risorse raccolte grazie all’export del petrolio, la Norvegia investe sempre più nelle energie rinnovabili, principalmente nel settore idroelettrico.

Oggi, secondo i dati forniti dall’IRENA (International Renewable Energy Agency) la fornitura di energia della Norvegia è prodotta in larga parte da risorse rinnovabili, il 43% del totale, mentre petrolio (37%), gas (16%) e carbone (4%) sono sempre più in diminuzione. Se osserviamo le percentuali delle fonti di energia primaria rinnovabile di Stati Uniti (8%), Germania (13%) o Italia (18%), appare evidente come il modello norvegese sia decisamente meglio indirizzato verso un futuro più sostenibile, anche grazie al programma “Oil for development“, che investe i proventi del petrolio nello sviluppo sostenibile e ha reso il paese il sesto produttore mondiale di energia idroelettrica.

Eppure sono molte le contraddizioni che contraddistinguono la politica energetica del paese nordico di amore ed odio per i giacimenti petroliferi, utilizzati per costruire ricchezza e sviluppo ma ancora non superati, al punto che recentemente l’opinione pubblica norvegese e mondiale si è trovata ad affrontare diversi casi eticamente e giuridicamente spinosi. Con la scoperta del giacimento di Johan Sverdrup al largo di Stavanger e l’inizio della produzione nel sito da parte dell’azienda Equinor nel 2019, le promesse del governo di abbandonare progressivamente lo sfruttamento del petrolio sono sembrate infrante. Con una produzione possibile di 3 miliardi di barili, si tratta del terzo più grande giacimento del Mare del Nord e nessuno intende rinunciarci: l’azienda si giustifica dicendo che, necessitando ancora nel mondo il petrolio, l’estrazione è eticamente legittima, anche perché Equinor è una delle aziende operanti nel settore con le minori emissioni di CO2 prodotte durante l’estrazione.

La Corte Suprema della Norvegia è, da novembre 2020, al lavoro a quello che i media del paese chiamano il “caso del secolo“, cioè i ricorsi di alcuni attivisti che contestano le licenze di estrazione nell’Artico concesse alle aziende petrolifere. Gli ambientalisti invocano il rispetto dell’art. 112 della Costituzione, di recente aggiunta, che salvaguarda il diritto a vivere in un ambiente sano. La stessa norma, però, prescrive che è possibile continuare le attività sospette inquinanti adottando misure idonee a porre rimedio ai potenziali effetti negativi che potrebbero causare. La questione è, oggi più che mai, aperta e dibattuta: il verdetto, che si aspetta con ansia, potrebbe cambiare profondamente la politica energetica, e di conseguenza economica e sociale, del Regno di Norvegia, stabilendo anche un importante precedente giurisprudenziale internazionale.

Lo sviluppo energetico e il rapporto con l’ambiente divengono ogni giorno sempre più centrali tanto nella politica dei governi quanto nella vita dei cittadini. La Norvegia, così come altri paesi tra cui l’Italia, sta cercando le misure adeguate per affrontare la crisi climatica e le sfide globali: con passi nella giusta direzione e piccole retromarce, la strada verso un rapporto più sano e integrato con l’ecosistema globale non sembra più così impossibile da percorrere.

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