Alfonsina Morini Strada: chi conosce questo nome? Eppure, stiamo parlando della prima (ed unica) donna che ha corso il Giro d’Italia! Nel clima tradizionalista dei primi decenni del Novecento, Alfonsina ha non solo la spudoratezza di andare in giro in bicicletta, ma soprattutto quella di partecipare a diverse gare sportive, allora riservate agli uomini. La sua storia straordinaria, però, è ancora troppo poco conosciuta. Volete scoprirla?
La piccola Alfonsa Rosa Maria nasce nel 1891 a Castelfranco Emilia (allora in provincia di Bologna, oggi Modena), da una famiglia poverissima e numerosa (in totale avrà nove fratelli). È la secondogenita, per cui deve spesso aiutare la madre nei lavori di casa. Cresce in un ambiente povero, dove la mentalità è molto chiusa: la sua voglia di ribellarsi nasce certamente anche da qui. È nel 1901 che papà Carlo Morini porta a casa una bicicletta, ottenuta dal dottore del paese in cambio di qualche lavoretto. Serve per facilitare gli spostamenti, ma ben presto diventa l’oggetto preferito della secondogenita.
Per una bambina che non aveva mai avuto bambole o giocattoli, la bicicletta – benché malandata -rappresenta la libertà. Alfonsina impara subito a correre in bici, anche se questa è troppo alta per lei. La ragazzina prende dimestichezza, batte in velocità i coetanei maschi e in paese viene definita “la matta”. Non rinuncia alla bicicletta nemmeno quando ormai si è fatta grandicella, e il suo soprannome, con una connotazione decisamente negativa, è diventato “diavolo in gonnella”. I genitori si vergognano della figlia e sperano che al più presto le passi quest’insana passione.
Questa visione negativa delle donne in bicicletta, tuttavia, non è una tendenza universale. Già da tempo, infatti, in diversi paesi d’oltralpe le biciclette sono diventate uno strumento di emancipazione femminile. Non a caso, nel 1896, in Belgio, si è disputato il primo campionato del mondo di ciclismo femminile. In Italia però, soprattutto nei piccoli paesi, è ancora scandaloso vedere le caviglie femminili; la donna è fatta per stare in casa e badare ai figli. Inoltre, il sellino della bicicletta è visto come un oggetto dove le donne praticherebbero l’autoerotismo. Alcune coraggiose signore, però, sfidano la morale comune inforcando la bicicletta: tra queste, Adelaia Vigo, Lina Cavalieri e Alessandrina Maffi, la “biciclettista di ferro”. Pertanto, nonostante i pettegolezzi della gente di Castelfranco, Alfonsina continua ad pedalare e, di nascosto dai genitori, comincia a disputare qualche corsa locale. Una volta vince persino un maiale vivo!
Tuttavia, Alfonsina si rende conto che se vuole avere qualche possibilità in più, deve allontanarsi dall’ambiente chiuso e dalla mentalità arretrata del suo paesino. Parte così per Torino, ex capitale, dove diverse donne cicliste sfidano i pregiudizi della gente pedalando per le strade della città. Qui conosce il ciclista Carlo Messori, che inizia a consigliarle alcune strategie di allenamento e di corsa. Ed è lo stesso Messori che, ingaggiato per andare in Russia a correre il Grand Prix di Pietroburgo, si fa accompagnare anche da Alfonsina, la cui presenza alla gara desta meraviglia e ammirazione, tanto che lo zar Nicola II e la zarina Alessandra le donano una medaglia.
Intanto Alfonsina cresce e nel 1911 si trasferisce a Milano, nuovo cuore del ciclismo. Lo stesso anno stabilisce il record mondiale di velocità femminile, con oltre 37 km/h; dato però non omologato nella federazione internazionale, che inizierà a contare i primati femminili solo nel 1955. Nonostante i genitori non siano ancora completamente d’accordo con le scelte di vita della figlia, Alfonsina ormai è dedita alle corse, alle quali affianca lavori di maglieria per racimolare qualche soldo. Ben diversa è l’opinione su di lei di un giovane che incontra nel capoluogo lombardo, il quale rimane affascinato dalla tenacia di quella ragazza. Luigi Strada, di mestiere cesellatore, diventa il primo tifoso di Alfonsina, e ben presto anche suo marito. Strada sarà dunque il cognome che assume la giovane emiliana, con il quale sarà nota da allora in poi; dal nome di un marito che appoggia appieno la sua carriera sportiva e che la incoraggia ad allenarsi tutti i giorni. Si pensi solo che come regalo di nozze Luigi dona alla moglie una biciletta da corsa nuova!
Nel 1915, però, l’Italia entra nella Prima guerra mondiale. Lo sport ne risente fortemente: sono sospesi il Giro d’Italia e le Olimpiadi (che si sarebbero dovute svolgere a Berlino). Tuttavia, rimane attivo il Giro di Lombardia, nato dal 1905 e finanziato dalla Gazzetta dello Sport. Nel 1917 si svolge la tredicesima edizione, alla quale partecipano ciclisti professionisti quali gli italiani Girardengo e Belloni, il belga Philippe Thys, il fiammingo Anderlecht e il francese Pèlisser. Tra i dilettanti, troviamo invece un nome familiare: con il numero 74 gareggia infatti Alfonsina Strada. È agitata, perché è la sua prima vera sfida in una gara totalmente maschile; ma è anche determinata: riesce a concludere il percorso arrivando un’ora e mezza dopo il vincitore (Philippe Thys), insieme ad altri due ciclisti, Sigbaldi e Augé. Viene classificata come ultima, ma è arrivata a destinazione, a differenza di altri che si sono arresi molto prima. Per Alfonsina questa corsa è comunque un grande successo personale: ha dimostrato che le donne possono gareggiare, anche contro gli uomini.
Tuttavia, nel Giro di Lombardia del 1917 la presenza di una donna è prevalentemente ignorata dalla stampa. Quei pochi che ne parlano definiscono la sua partecipazione un capriccio e una stramberia: che cosa ci faceva quella ragazza dalle gambe muscolose in mezzo a tanti uomini? La ciclista però non si arrende, e l’anno successivo partecipa nuovamente al giro lombardo. Su quarantanove iscritti solo trentasei si presentano ai nastri di partenza: tra questi Alfonsina, che riesce a completare il percorso (quattordici corridori si ritirano nel corso della gara) e a guadagnare il penultimo posto, superando in volata il comasco Carlo Colombo. Ora è definita “la regina della pedivella” – e il carattere dispregiativo del soprannome va scomparendo.
Il dopoguerra, tuttavia, è duro: in Italia l’insoddisfazione è grande e si manifesta con i primi scontri tra fascisti e comunisti. Per Alfonsina non è affatto un periodo facile: le difficoltà economiche si fanno sentire e il marito Luigi inizia a soffrire di un profondo esaurimento, legato alla sofferenza patita durante la guerra e ad alcuni gravi furti presso la sua bottega. Purtroppo, nel 1924 Luigi viene ricoverato in manicomio, dove rimarrà fino alla morte, nel 1942. La giovane decide quindi, anche per guadagnare qualcosa, di partecipare all’edizione del dodicesimo Giro d’Italia.
Inizialmente, ci sono diverse discussioni sulla legittimità della sua iscrizione. Emilio Colombo e Armando Cougnet, rispettivamente direttore e amministratore della Gazzetta dello Sport, la autorizzano infine a partecipare. È soprattutto Colombo ad insistere perché la ciclista prenda parte al Giro: quell’anno, infatti, molti grandi sportivi come Girardengo, Brunero e Bottecchia non partecipano, per questioni economiche legate ad alcune pretese avanzate dalle case più prestigiose. Colombo è un abile uomo di marketing, e pensa che la presenza di una donna al Giro possa suscitare interesse e promuovere la corsa. All’interno dello stesso comitato organizzativo, tuttavia, c’è chi teme che la gara risulti una “pagliacciata” a causa della presenza di Alfonsina.
Anche per questo il nome della trentatreenne non viene reso noto fino all’ultimo. A tre giorni dalla gara, la Gazzetta scrive, accanto al numero 72, “Alfonsin Strada di Milano”. Un errore del tipografo o una esplicita disposizione del direttore? Non ci è dato saperlo. Solo il giorno della partenza, il 10 maggio 1924, viene reso noto il nome completo – e femminile – della ciclista. Ed ecco tra i corridori una donna con i capelli tagliati alla bebè, i pantaloni alla zuava, una bici da uomo senza cambio e tanta, tanta voglia di dimostrare il proprio valore. In poco tempo la sua presenza suscita curiosità, al punto che lungo il percorso della seconda tappa il pubblico è quasi raddoppiato. Tutti cercano Alfonsina, molti la incoraggiano, ma non mancano le critiche.
Alcune persone, infatti, le affibbiano epiteti volgari, giudicano indecente la sua presenza e la insultano lungo la strada. Altri, al contrario, scrivendo di lei sui giornali la descrivono idealizzando la sua femminilità, le sue gambe visibili e la sua “piacente silhouette”; sessualizzando in maniera irriverente la giovane ciclista. Tuttavia, man mano che la corsa prosegue, la fama di Alfonsina cresce, tanto che la signora Strada riceve anche un mazzo di fiori – corredato con una busta contenente 5.000 lire – da parte del re Vittorio Emanuele III. Le migliori prestazioni della sportiva sono le prime tappe, la Milano-Genova, Genova-Firenze, Firenze-Roma e Roma-Napoli. Viene accolta con ovazioni, tanto entusiasmo e regali di vario genere.
I problemi sorgono con l’ottava tappa, l’Aquila-Perugia: Alfonsina cade, rompe il manubrio e lo ripara con un manico di scopa. Arriva a Perugia nel corso della notte, fuori tempo massimo: per regolamento, dev’essere sospesa dalla gara. Ormai, però, la popolarità di Alfonsina è cresciuta e tutti desiderano vedere la “corridora”. Emilio Colombo opta dunque per un compromesso, già concordato anche con altri ciclisti: la giovane può proseguire, ma non è più considerata ufficialmente in gara. Lo stesso Colombo paga in prima persona alloggio e massaggiatore per Alfonsina. La ciclista prosegue quindi la corsa seguendo gli stessi orari e regolamenti dei compagni. Il Giro, lungo 3.618 chilometri, si conclude con la vittoria di Giuseppe Enrici. Dei novanta corridori partiti, solo trenta giungono all’arrivo; tra costoro c’è Alfonsina.
Negli anni seguenti, a causa del maschilismo insito nella dittatura fascista, non le verrà più permesso di partecipare al Giro d’Italia. Rimane vedova dell’amato Luigi, ma la sua carriera non si interrompe: continuerà a partecipare a numerose gare, alcune delle quali sono corse femminili disputate in Francia. Nel 1950 Alfonsina si risposa con Carlo Messori, quello stesso ciclista che le aveva dato i primi consigli nei lontani anni Venti; insieme, aprono a Milano un negozio di biciclette con officina annessa.
Tuttavia, anche Carlo muore, nel 1957. Per un po’ Alfonsina porta avanti da sola l’attività, dopodiché sceglie di chiudere il negozio. Benché non partecipi più a gare agonistiche a causa dell’età, la passione per le due ruote non la abbandona: continua imperterrita a gironzolare per le strade con la sua vecchia bicicletta da corsa. Diversi anni dopo, però, la sostituirà con una Moto Guzzi 500: purtroppo, proprio mentre tenta di riavviare quest’ultima, sopraggiunge la morte per infarto, nel settembre del 1959. Ricordiamo dunque Alfonsina come una donna tenace, pioniera del ciclismo femminile. È grazie a persone come lei che è iniziato il percorso – tutt’oggi non concluso – verso la parità di genere nello sport agonistico. Dal 1988 è nata la Corsa Rosa, parallela al Giro d’Italia, ma si tratta di una gara tutta al femminile. Concludiamo, infine, con una breve (ma iconica) citazione di Alfonsina: “Vi farò vedere io se le donne non sanno stare in bicicletta come gli uomini”.
Paolo Facchinetti, Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada, Edicicloeditore, 2004
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