Manolo, il Mago dell’arrampicata libera

Semplice non è sinonimo di facile, di banale. Al contrario, spesso è proprio ciò che consideriamo semplice a richiedere i più grossi sforzi fisici e mentali, le più difficili privazioni, le scelte più ardite e inconsuete. Manolo, al secolo Maurizio Zanolla, incarna perfettamente questa dicotomia lessicale profonda: le sue scelte prediligono la semplicità, ma non sono mai state certo facili o, tantomeno, comuni.

Il Mago, così come è chiamato nel mondo dell’alpinismo, è il pioniere del free climbing in Italia e uno dei maggiori interpreti di questa disciplina. Nato a Feltre nel 1958, è diventato negli anni una vera icona dell’alpinismo italiano e mondiale, pur mantenendo sempre uno stile di vita molto riservato e schivo, tanto che a fronte delle innumerevoli imprese sulle pareti alpine, sono molte poche le sue interviste e le sue apparizioni pubbliche. L’approccio romantico, profondo e istintivo di Manolo alla montagna è ciò che, oltre alle sue arrampicate estremamente pericolose e complesse, ha reso un ragazzo affascinato dai pendii una vera e propria icona della montagna.

Maurizio, figlio di operai che lavoravano in Svizzera, scopre l’amore per la roccia attorno ai sedici anni, iniziando ad arrampicare quasi casualmente. Una volta posate le mani nude sulla parete, però, il giovane rocciatore non riesce a staccarle più. Il suo stile si perfeziona poco a poco, prediligendo l’utilizzo di passaggi e appigli sempre più piccoli, instabili e precari, iniziando una ricerca dell’equilibrio mentale e fisico attraverso la scalata. Verso la fine degli anni Settanta e per tutto il decennio successivo lo stile di Manolo si afferma nel mondo dell’alpinismo e i successi sono molteplici: dalla via Cassin alla Torre Trieste alla Bonatti sul Gran Capucin, Manolo arriva ad aprire alla fine del 1978 circa ventotto vie, coronando il successo con un traguardo sportivo storico, la via Dei Piazaroi di difficoltà 7b presso le Pale di San Martino.

Le sue vie in falesia sono sempre più leggendarie e pericolose, come la ormai celebre Mattino dei maghi sul monte Totoga, datata 1981, o Ultimo movimento, via con cui è il primo italiano sale e libera un grado 8b. Passano gli anni, ma non finisce mai la passione e la dedizione di Zanolla che, a quarantotto anni, scala nel 2006 il suo primo grado 9a nella falesia svizzera di Saint-Loup. Nel 2016, invece, ripete la sua via Mattino dei maghi sul Totoga, un’impresa che ancora una volta riscuote grande ammirazione in tutto il mondo alpinistico per il rocciatore di Feltre. L’elenco delle sue imprese è costellato di emozionanti scalate e magnifiche pareti, ma di nessuna partecipazione a gare sportive. Per Manolo non si tratta di sport, ma di vita. E non ha senso competere con altri che non siano se stesso.

Sono molti gli alpinisti nel mondo, e molti di loro sono eccellenti sportivi. Eppure nessuno è come Manolo. Più che uno sportivo, si tratta di una sorta di filosofo pratico. Le sue scelte di vita, così come le sue vie, sono ispirate al bisogno di conoscere il proprio sé e seguire le proprie passioni. La montagna è per Manolo il luogo in cui è possibile prendere in autonomia le proprie decisioni e accettarne fino nel profondo le conseguenze: una definizione di libertà tanto semplice da comprendere quanto difficile da seguire. Può sembrare una vita semplice, vivere in una baita in un bosco, crescere dei figli e seguire la passione per le pareti, eppure quanti sarebbe capaci di farlo? Quante persone davvero riescono a scegliere le proprie inclinazioni senza finire a vivere i desideri che altri hanno predisposto per loro? L’esempio alpino di Manolo diventa, oggi più che mai, una risposta alla società alienante e al superfluo.

Nel suo libro Eravamo immortali, Manolo specifica che “non andavo in montagna per morire, anzi. Ci andavo per vivere la bellezza della natura, lontano dalle contaminazioni sociali, dalle certezze soffocanti, dalle false sicurezze”. Non è un uomo che rischia la vita con ogni sua impresa, rinunciando all’utilizzo delle corde e delle attrezzature, per il gusto di essere ricordato, diventare qualcuno per altri, assaporare la morte. Ciò che brilla in quegli occhi glaciali, affascinati e concentrati è la ricerca del proprio posto nel mondo, è il coraggio di seguire le proprie inclinazioni. A volte è difficile spiegare la ragione profonda per cui si prendono alcune scelte, togliere i chiodi dal proprio equipaggiamento da rocciatore. Eppure forse è questo che comunica Manolo: avere la capacità di conoscersi, accettare le proprie inadeguatezze e abbracciare le proprie qualità, accettando l’imprevedibilità degli ambienti alpini, una potenza che nessuno può prevedere. Non avere paura di sbagliare ma far tesoro di ogni proprio piccolo errore.

La montagna non è uno sport, ma infinitamente molto di più. Sono poche le persone in grado di compiere imprese comparabili a quelle di Manolo, di Bonatti, Messner o Cassin, ed è giusto così. Manolo ha fatto del suo amore per la roccia e delle sue capacità di scalare il motore delle sue scelte, un esempio di ciò che vuol dire seguire il proprio daimon, il proprio essere più vero. Per Manolo non era la cima il vero obiettivo, il vero successo: bensì la qualità del suo percorso, la paternità della propria via, la capacità di essere se stessi solo per amore della propria natura.

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