Capita molto spesso, nel mondo delle serie tv importanti, che i finali deludano. Non tanto perché nella resa abbiano pecche davvero imperdonabili, quanto perché li si affronta sentendone già un po’ la mancanza e con aspettative pari alla grandezza che hanno per noi. È successo anche con Il Trono di Spade, naturalmente; ma in maniera assai più ampia e complessa. Perché in questo caso a smuoversi c’era la consapevolezza che con la sua fine si sarebbe chiuso un ciclo, un’epoca televisiva; e che prima di poter fruire di un prodotto simile avremmo dovuto attendere un tempo piuttosto indefinito. Infatti, a distanza esatta di un anno, non c’è nemmeno una delle tante pretendenti annunciate che sia riuscita a prendere il suo posto.
Il successo
Nei suoi otto anni di messa in onda su HBO, Il Trono di Spade “è diventata un fenomeno di massa, e ogni stagione è stata un evento pop atteso, seguito e commentato in tutto il mondo” ha scritto Link. Il fatto curioso, però, è che tuttora non si abbia un’idea chiara e completa di come sia riuscita a diventarlo.
Quella del Trono di Spade è una ricetta complessa. Una buona percentuale della sua riuscita si deve al fatto che a formularla siano state due figure a loro modo rivoluzionarie per i mondi cui appartengono: lo scrittore George R. R. Martin, autore della saga fantasy Cronache del ghiaccio e del fuoco, dalla quale è tratta la serie; il canale via cavo HBO, che più di tutti ha contribuito a spingere la serialità verso la sua epoca d’oro con titoli come I Soprano, The Wire, Sex and the City. Ma l’elemento forse più importante è che dalla loro collaborazione si sia generata una serie in grado di attrarre un pubblico ampissimo ed eterogeneo.
Il Trono di Spade non è un semplice fantasy, infatti. Il suo è un integrarsi di generi in una storia estremamente ricca, stratificata e così lenta nel dipanarsi, da riuscire a dare a ciascun tipo di spettatore la sua dose di appagamento. Nel mondo immaginato da Martin e messo in scena per HBO dai creatori David Benioff e D. B. Weiss ci sono meticolose ricostruzioni storiche, ispirazioni letterarie (da Shakespeare a Tolkien) e televisive (come I Borgia e I Tudor), esercizi di politica sottile e di quella più sporca, esempi d’azione di spettacolarità filmica, e pure più blande derive telenoveliche. Il tutto, intessuto con un equilibrio senza precedenti e alquanto difficile da replicare per chiunque aspiri a succederle.
Le pretendenti
A colmare il vuoto lasciato dal Trono di Spade ci hanno provato (e ci stanno provando) in tanti, ancor prima che la serie stessa finisse. Ci ha provato con molto anticipo HBO, che in Westworld aveva individuato la sua potenziale nuova produzione di punta, poi rivelatasi troppo cervellotica per poter attrarre un pubblico davvero ampio. E tra gli ultimi ci ha provato Netflix, accaparrandosi gli adattamenti delle saghe letterarie The Witcher, Cursed e Le cronache di Narnia. Intanto, Amazon sta lavorando a una costosa versione seriale del Signore degli Anelli. La verità, però, è che nemmeno nel caso di House of the Dragon – il prequel annunciato da HBO e incentrato sulla dinastia dei Targaryen – le aspettative sono entusiastiche.
Sarà che ormai la formula “È la nuova Game of Thrones” non ci illude più. E sarà che Il Trono di Spade ha stabilito degli standard molto, molto elevati. Ma il problema è che manca ancora un’idea ben chiara sulla strada da seguire per poter replicare un successo simile.
Le vie più percorse finora sono due: competere direttamente con la serie; oppure sfilarsi dal confronto preferendo la sperimentazione. Nel primo caso, è molto difficile pensare di partire da un livello inferiore a quello raggiunto dal Trono di Spade: il genere fantasy basa la sua credibilità anche sul dispendio economico, e qui si tratta della serie più costosa nella storia della televisione (solo l’ultima stagione è costata 90 milioni di dollari per sei episodi totali); inoltre bisogna individuare la giusta opera culturale di partenza. Nel secondo caso invece si ha tutta la libertà di mescolare generi, con l’obiettivo di ottenere prodotti ben fatti e originali (come A Discovery of Witches e Good Omens), ma con minori pretese. Non è detto, comunque, che l’erede del Trono di Spade sia da cercare soltanto nel fantasy.
Non solo una serie, ma un’esperienza
Quando l’ultimo episodio del Trono di Spade andò in onda nel maggio 2019, l’accoglienza fu perlopiù negativa. A grandi linee, gli spettatori si divisero tra comprensivi, ben disposti a cercare una quadra positiva di quanto visto; delusi, intenti a elaborare la propria frustrazione; e arrabbiati, cioè quelli che lanciarono una famosa petizione per chiedere la riscrittura dell’intera ottava stagione. Le pecche in effetti ci furono, e non si può negare che nel corso degli anni la serie abbia ceduto ad alcune convenzioni del racconto televisivo che in partenza aveva sorprendentemente evitato. Ma il punto è che il dibattito sulla questione si protrasse per settimane su giornali e social network.
La forza acquisita di stagione in stagione dal Trono di Spade (quella che l’ha resa il titolo più visto nella storia di HBO e anche il più piratato nella storia di internet) appartiene in buona parte al discorso che le si è generato attorno. Il rilascio a cadenza settimanale degli episodi ha permesso di analizzare la serie, parlarne un po’ ovunque e ingrandirne l’aura di evento; tanto che ancora adesso c’è chi sceglie di iniziare a vederla sulla scia degli entusiasmi altrui. In un contesto televisivo come quello di oggi, frammentato in una moltitudine di canali e servizi streaming che consentono di adattare la fruizione ai propri orari, questo è l’aspetto più difficile da replicare e consolidare nel tempo.
Indipendentemente da come sia finita, Il Trono di Spade si è intrecciata alle nostre vite, ci ha tenuti svegli a seguire battaglie notturne, e ci ha fatto riscoprire la bellezza della visione collettiva in un’epoca in cui la tv ognuno la guarda da sé. Il Trono di Spade non è stata solo una serie, ma un’esperienza. E potrà sostituirla solo chi, al di là del genere, riesca a coinvolgerci in qualcosa di simile.