Dandora è una discarica che occupa più di dodici ettari nella parte est di Nairobi, la capitale del Kenya. La capitale del Ghana, Accra, ospita invece la più grande discarica mondiale di rifiuti elettronici, Agbogbloshie. La plastica ed i rifiuti elettronici costituiscono gran parte dei materiali che si trovano all’interno di queste gigantesche discariche a cielo aperto. Gli studi effettuati sulla qualità ambientale dei luoghi mettono in luce quanto già si poteva supporre. L’aria, il suolo e le acque risultano impegnate di piombo, alluminio e rame, che si riscontrano anche all’interno del sangue, delle urine e del latte materno della popolazione che vive in quelle aree.
L’impatto delle multinazionali
La Coca cola è la prima multinazionale per emissione di rifiuti plastici nell’ambiente («The brand audit report 2019»): sono stati raccolti e censiti rifiuti ricollegabili al marchio in 37 differenti Paesi; seguono altri colossi come Pepsi e Nestlé. Si tratta di industrie che da sole hanno un valore che potrebbe essere paragonato al PIL di interi Stati, è comprensibile dunque che la posta in gioco sia elevata.
In Africa è attualmente in vigore il maggior numero di divieti per quanto riguarda l’uso delle plastiche. Ad esempio in Senegal sono al bando i sacchetti di plastica e le tazze di plastica monouso, attualmente però sospeso fino al termine della pandemia. In Kenya le autorità si erano spinte oltre, paventando la possibilità di vietare le bottiglie di plastica in tutto il paese. Coca Cola, Unilever e la Kenya Association of manifacturers hanno dato vita alla Petco, società che dovrebbe dimostrare lo sforzo dell’industria locale della plastica di autoregolamentarsi. Il logo è verde, volutamente ispirato al triangolo di frecce simbolo della sostenibilità/riciclaggio, tuttavia non si tratta di un’organizzazione ambientalista (i suoi uffici si trovano all’interno della sede della Coca Cola a Nairobi)
“Otto fiumi portano quasi il 90% dei rifiuti plastici negli oceani. Nessuno è americano.”
In USA sono in esame due diverse proposte per progetti di legge a tema ambientale, rispecchiano due punti di vista opposti ed esemplificano bene la situazione di incertezza del momento.
Una di queste è “Save our seas 2.0,”, vale a dire salviamo i nostri mari. Lo scopo è migliorare il sistema di riciclaggio attualmente in uso e finanziare la ricerca per nuovi metodi, i fondi deriverebbero direttamente dalle tasse dei contribuenti. La proposta ha trovato appoggio in senato e l’approvazione dell’American chemistry council, l’organizzazione che rappresenta le grandi aziende produttrici di plastica.
Una visione opposta è contenuta nella seconda proposta di legge, “Break free from plastic pollution”. È una soluzione molto più radicale perché muove dal presupposto che il riciclaggio non sia più sufficiente, soprattutto a fronte di numeri così ingenti. L’obiettivo perciò è quello di spostare la responsabilità sulle aziende e meno sul consumatore finale. Si istituisce un programma nazionale di vuoti a rendere e si sospende temporaneamente la costruzione di nuovi impianti per la produzione di plastica. Infine si prevede un’eliminazione progressiva dei prodotti in plastica monouso non necessari, come in parte sta già succedendo all’interno del contesto europeo. Progetto ambizioso la cui riuscita passa anche per le elezioni di novembre.
Il tema ambientale è indubbiamente un fattore rilevante in vista delle ormai imminenti elezioni statunitensi. Parlando della questione della plastica, Rick Perry (segretario dell’energia durante l’amministrazione Trump, si è dimesso nel 2019) ha menzionato uno studio effettuato nel 2017 e pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology. “Nel mondo otto fiumi portano quasi il 90% dei rifiuti plastici negli oceani. Nessuno è americano.” Effettivamente è vero: sei di questi fiumi si trovano in Asia, i restanti due in Africa. Ciò che Perry non ha evidenziato però è stata l’importazione di 172 milioni di tonnellate di plastica in trentatrè paesi africani, tra il 1990 e il 2017. Gli USA sono tra i principali esportatori di rifiuti, si tratta, solo nel 2019, di 80mila le tonnellate inviate a novantasei paesi. Risulta evidente dunque che le origini del problema non siano locali.
“Commercio” globale di rifiuti
I Paesi in via di sviluppo usano metodi discutibili per lo smaltimento di queste tonnellate. In Camerun vengono sciolti e mescolati alla sabbia, il prodotto viene usato per pavimentare le strade. In altri Paesi si arriva direttamente alla combustione della plastica, pratica ancora più nociva.
La plastica che arriva in questi Stati viene normalmente denominata riciclata, numerose indagini però hanno dimostrato il contrario. Il commercio globale di rifiuti assume dunque la sembianza di un trasferimento di materiali che non si sanno gestire. Poco importa poi se si decide per la fusione, la combustione o non si decide proprio. D’altronde di commerciale c’è ben poco, considerando che il valore della plastica di scarto è quasi irrisorio e in molti casi sono le aziende ad essere pagate per riceverla, non viceversa.
Negli ultimi anni il traffico di rifiuti verso l’Africa si è intensificato perché la Cina (in precedenza la meta prediletta) ha chiuso le porte ad ogni ingresso. Altri Paesi tentano un’emulazione, molto spesso però la restituzione dei rifiuti si rivela un’impresa quasi impossibile. Capita infatti che i container restino depositati nei porti di qualche grande città marittima oppure vengano semplicemente dirottati verso altri Paesi.
Jim Puckett è il direttore esecutivo del Basel Action Network, una ONG che vigila sul rispetto e l’applicazione della convenzione di Basilea¹ riguardo i rifiuti, sintetizza bene la situazione corrente con queste parole: “Tutti stanno cercando il prossimo paese disposto ad accettare quella roba”. Il trasferimento del problema non corrisponde ad una sua soluzione, sembra però essere la modalità più accreditata.
¹ L’accordo è in vigore dall’8 maggio 1994 ed è il più completo stipulato da parte dell’Unione Europea riguardo la tematica ambientale, in particolar modo la gestione dei rifiuti. Oltre a regolarne i movimenti transfrontalieri, richiede alle parti in causa la gestione e lo smaltimento secondo modalità sane dal punto di vista ambientale.
FONTI:
L’Africa invasa dalla plastica. Sharon Lerner, Internazionale 1379, pp. 46 – 54.