I sistemi giuridici variano di continuo. All’interno di un solo Stato o da Paese a Paese, le leggi preposte al controllo della vita sociale possono presentare le più piccole differenze che, tuttavia, in molti casi si rivelano determinanti per l’esito di processi e casi legali.
Lindsay Malloy, professoressa, ricercatrice e psicologa dello sviluppo forense, ha esposto i suoi dubbi riguardo ai metodi utilizzati dal sistema legale americano nei confronti dei minori durante una conferenza TED.
La teoria della psicologa parte dal noto caso Dassey: Brendan Dassey, giovane del Wisconsin nato nel 1989, fu condannato per omicidio di primo grado, mutilazione di cadavere e aggressione sessuale di secondo grado nel 2007 (quindi a soli sedici anni) all’ergastolo, “solamente” sulla base della sua confessione durante l’interrogatorio svolto dai detective. Quella che a molti sarà potuta sembrare una decisione giusta e più che meritata, si è in effetti rivelata erronea. Nell’estate del 2016, infatti, un giudice federale ha riaperto il caso e dopo numerose analisi ha stabilito che l’interrogatorio del giovane era stato condotto in maniera coercitiva e ne ha quindi decretato il rilascio.
Una cosa però non è chiara… perché confessare il falso?
Numerosi studi hanno dimostrato che un’altissima percentuale di minori finisce, in situazioni come queste, per confessare reati non commessi e, considerando che negli Stati Uniti il 97% dei casi legali viene risolto ottenendo le confessioni da parte degli indagati e non con un processo in aula, si può immaginare quante migliaia di persone potrebbero, in via ipotetica, aver subito il medesimo trattamento. La ragione di questi esiti fasulli, ma volontari, potrebbe essere ricercata nell’approccio che le forze dell’ordine implicate nelle indagini usano nei confronti dei minori, dando per scontato di avere di fronte adulti fatti e cresciuti. I giovani infatti sono alquanto differenti dagli adulti e non solo per un puro fatto anagrafico: a livello anatomico, sono due le principali diversità imputabili di decisioni sprovvedute come confessioni non veritiere.
Innanzitutto la mancata concezione del tempo. I bambini di frequente pongono domande come “quanto manca?” proprio perché
Il loro cervello infatti non ha ancora sviluppato le parti necessarie a calcolare le durate di tempo e concetti come il “prima” e il “dopo”. Si può dire che i bambini vivano continuamente nel presente. Solo verso i 9 mesi, l’infante inizierà ad “utilizzare” il futuro; a questa età un bambino può resistere secondi o anche minuti prima di seguire i suoi istinti (ad esempio, iniziare a piangere). Perché il bambino però possa elaborare tempi più lunghi, dovrà passare più di metà della sua infanzia.
Sarà allora comprensibile capire il perché della decisione del ragazzo: davanti a una figura autoritaria come quella del detective, il minore si sentirà sotto pressione e il suo istinto primario cercherà di spingerlo verso la soluzione più immediata, senza avere presenti gli effetti a lungo termine di quella decisione. Ciò che vuole l’adolescente è tagliare corto, scrollarsi di dosso i problemi anche a costo di ripercussioni lunghe letteralmente una vita.
In secondo luogo,
Nel periodo adolescenziale (…) vi è una ristrutturazione dei lobi frontali, i quali sono la sede del controllo delle emozioni e della capacità di prevedere le conseguenze delle nostre azioni. Questo rimaneggiamento potrebbe essere, in parte, la causa dell’impulsività e dell’imprevedibilità tipica degli adolescenti. Il sistema limbico invece, deputato alla generazione delle emozioni, è già maturato intorno ai 14 e 16 anni. Quindi, mentre la nostra mente manca ancora dei mezzi necessari all’autocontrollo, le emozioni e i centri del piacere colpiscono al massimo della potenza.
Per cui, in definitiva, la reazione del minore alle indagini sarebbe comandata da un mero effetto emotivo, più che non razionale, e che quindi condurrebbe il giovane a non valutare la situazione per come è realmente, ma ad affidare la propria versione a una coscienza confusa e incapace di proteggersi.
Quello che sconvolge non sono le ipotesi, ma i numeri veri e propri. Oltre il 25% delle confessioni in condanne illegittime, infatti, si sono poi dimostrate false dopo l’esclusione dell’indagato con il test del DNA. E ancora, in uno studio di 873 assoluzioni, il 42% di giovani ha confessato il falso (contro l’8% degli adulti). Di fronte a cifre reali come queste anche i più scettici saranno costretti a pensare, almeno per poco, che una persona in determinate circostanze possa perdere il controllo di sé e delle proprie convinzioni, ma quello che non bisogna dimenticare è che le persone di cui si parla sono ragazzi, il cui sviluppo non è lontanamente comparabile a quello di un adulto e le cui decisioni vanno prese, a maggior ragione, con più sicurezza che mai. A questo proposito, un’alternativa (che in alcuni paesi è un obbligo) sarebbe quella di affiancare al giovane un adulto che lo supporti, che si tratti di un genitore, di un assistete sociale o di un avvocato.
Cosa rende un ragazzo troppo giovane per comprarsi delle sigarette, per bere dell’alcol o per guidare, ma abbastanza adulto per decidere della propria vita? Lindsay Malloy si pone di continuo questa domanda, ma a quanto pare la risposta è ben lontana dall’essere trovata.