Trentatré

Mia moglie a volte non la capisco. Credo che questo abbia a che fare col mio lavoro, anche se non ne avrò mai la certezza. Spiegare cosa faccio è complicato, negli anni ho passato in rassegna tutti i mestieri che, per un verso o per l’altro, potrebbero aiutare a definire meglio il mio: assistente, consigliere, sparring partner, gigolò, guru. Ma nessuno, preso singolarmente, funziona fino in fondo.

Non ho mai desiderato avere grandi qualità. Anzi, da che ho ricordi, ho sempre preferito non averne nessuna. A lungo mi sono domandato se questa non fosse essa stessa una qualità, e sono giunto alla conclusione che non lo so. Forse per saperlo dovrei avere una qualche qualità che io di certo non ho e non voglio avere. Quindi mi limito a fare il mio lavoro senza pormi troppe domande. Faccio fare bella figura agli altri e vengo pagato per questo.

Esiste un numero pressoché infinito di situazioni in cui la mia figura professionale è richiesta. Sport, studi, lavoro, amore, tempo libero. Tutto si gioca su un equilibrio. Qualsiasi cosa io stia facendo, rispetto al mio cliente non devo risultare né troppo né troppo poco. Perché se fossi troppo lo metterei in ombra, se fossi troppo poco solleverei negli altri dei sospetti sul suo reale livello. Non ci facciamo caso, ma spesso nella vita scegliamo secondo un criterio elementare, quello che io chiamo il criterio del più o meno. Questo fa sì che ci circondiamo di persone molto simili a noi. Non troppo al di sopra e non troppo al di sotto delle nostre possibilità. Più o meno.

Ora, mettiamo che tu voglia far colpo su una donna. Per prima cosa devi fare in modo che lei inviti un’amica. A quel punto puoi ingaggiarmi per un’uscita a quattro. Non hai bisogno di spiegarmi granché, per quello che mi paghi ti senti in buone mani. Antipasto e primo sono più che altro un pretesto per mettere in mostra la tua sicurezza nella scelta del vino. Io vi accompagno con dell’acqua leggermente frizzante. Lei è un tipo informato, con una certa istruzione, e io a un certo punto, tra il secondo e il dolce, tiro fuori qualche grande questione. La Crimea, ad esempio. Dell’argomento so poco, ma non pochissimo. Più o meno. Quel poco che basta a far sì che io ti possa fare alcune domande e che tu possa tra le altre cose accennare, quasi controvoglia, al tuo ultimo saggio pubblicato su non so quale rivista specialistica. Io ascolto interessato, le donne al tavolo ti occhieggiano. Poi andiamo in cassa e faccio il gesto di pagare. Lo faccio davvero, apro il portafogli e tiro fuori qualche banconota di piccolo taglio. Tu insisti, non se ne parla, paghi. A buon rendere, ti dico, e sul marciapiede fuori dal locale ci salutiamo da grandi amici, portando il pollice all’orecchio e il mignolo alla bocca come a dire sentiamoci. Otto volte su dieci, quando la riaccompagnerai, ti chiederà di salire da lei per un ultimo drink. Io invece porterò a casa l’amica, la saluterò senza baci sulla guancia e metterò in moto un secondo dopo la chiusura della portiera.

Il mio lavoro richiede una certa disciplina nel privato. Senza talenti non si nasce, si diventa. Alle persone viene naturale reiterare, tentare e ritentare finché non riescono. Io invece faccio tutto non più di trentatré volte. Senza entusiasmo e senza afflizione. Perché ho scoperto questa cosa: oltre quel numero divento bravino, oppure manifesto una definitiva incapacità. E io non posso permettermi né l’uno né l’altro.

Per via di questa disciplina numerica, con le donne è sempre complicato. Il mio lavoro finisce per interferire. Non è facile per loro accettare che mi rimangono solo sette volte all’Ikea, o quattro tramonti sul mare. Protestano, chiedono se con la mia ex quelle cose non le abbia fatte.

Per questa ragione io e mia moglie abbiamo fatto un patto. Lei fa il mio stesso lavoro – ci siamo conosciuti sul campo – e anche lei come me ha un numero limite di volte. E il patto è questo: non dircelo. Lei non sa il mio numero, io non so il suo. Sappiamo che per via della nostra professione tutto quello che facciamo ha una data di scadenza, ma non sappiamo quale sia. Questa cosa rende il nostro rapporto più sottile, complesso, cerebrale. Quando le propongo di andare al cinema o di fare una passeggiata, e lei mi dice di no, non so mai se me lo dice perché non ne ha voglia oppure perché davvero non può, o se invece mi ha detto no perché le andrebbe molto, ma preferisce conservare per un altro momento questa cosa che ama tanto fare con me e per la quale le rimangono solo poche volte. E così non so mai cosa le passa davvero per la testa. Ma so che siamo fatti l’uno per l’altra. Più o meno.

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